di ROBERTO CICCARELLI.
NELL’URGENZA teorica che la filosofa romana sta coltivando negli ultimi anni, la ricerca si concentra sulla responsabilità politica del pensatore basata su una domanda di giustizia per i senza patria e gli sfruttati, l’esercizio di una libertà fuori dai limiti tradizionali della filosofia politica che non è senz’altro riservata ai filosofi, ma è tale quando risuona nella comunanza delle donne e degli uomini. L’aspirazione platonica della filosofia a farsi totalità e identificarsi con la statualità sovrana è stata contrastata dall’inquietudine di Socrate. Per lui la filosofia non acquieta, non consola, non rassicura, ma è stupore e trauma. Il conflitto si squaderna: contro la filosofia che si fa Stato, c’è una filosofia che vive in un non luogo, mette a soqquadro l’ordine, rende stranieri a se stessi e pensa a partire da un non sapere. Questo, sottolinea Di Cesare, è l’inizio della filosofia, un inizio che è sempre nel mezzo delle cose, non afferma la pretesa a una comunità chiusa in se stessa, ma la invita a considerarsi a partire dalla sua costitutiva precarietà. In suo nome Socrate diventa una figura abissale. Eccedente è il suo aspetto, scomoda è la sua smania di domandare, senza mai dare risposte ed esercitando la funzione inesauribile della critica.
COSÌ IL FILOSOFO si sporge fuori di sé, «verso l’oltre e l’altro». La sua è una xenofilia, ama il fuori da sé. Instancabile evoca il conflitto che amplia, modifica, fa ricominciare la vita in continuazione. Questa intuizione sta alla base di un libro importante come Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione (Bollati Boringhieri) e alimenta la genealogia che Di Cesare ora esplicita quando rifiuta l’aristocrazia del pensiero e identifica il filosofo con il non-cittadino, gli immigrati, i profughi, gli accattoni, i giocatori d’azzardo, i nomadi, i disoccupati, i precari, i flâneurs. Era così Socrate, così è oggi il filosofo che esercita la politica contro il suo sapere, in nome di un’etica della rivoluzione e della critica.
Non potrebbe essere più grande la distanza tra questa vocazione politica e la tradizione filosofica, tra la genealogia del filosofo in quanto xenofilosofo e il filosofo come soggetto dello Stato e della sua sovranità. Qui non è in discussione solo il tradizionale conflitto tra lo Stato e l’anarchia.
Il conflitto è contro il ripiegamento del soggetto su se stesso, la penosa sensazione da fine del mondo, il mimare la catastrofe tra l’auto-negazione depressiva, il vittimismo celebrativo e il godimento nel rispecchiamento dell’impotenza del soggetto neoliberale. Questa è la cifra del successo della morale dominante, tra le più ricercate nel sistema mediatico e nei saperi accademici che meditano sulla morte e speculano sul Sé inteso fatalmente come impresa e capitale umano. La xenofilosofia è invece un’etica del risveglio, e del ricominciamento ed è l’antitesi all’incubo filosofico di cui siamo prigionieri.
DI CESARE mostra gli insospettabili punti di contatto tra il culto del capitale umano e le politiche neo-sovraniste e razziste: l’annullamento dell’altro come straniero o nemico nella competizione capitalistica contro i quali si riversa l’angoscia di un’esistenza chiusa al fuori, all’evento, allo stupore. Politica è invece abitare rischiosamente il mondo, mettendo in crisi le sue ambizioni al controllo e al potere, alla ricerca delle risonanze con chi può cambiare la vita rinchiusa in una monade senza finestre.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 22 novembre 2018.