di GIULIA VALPIONE 1

È fuori di dubbio che l’Università italiana stia attraversando una grossa crisi. Tagli ai finanziamenti, blocchi del turn-over, cervelli in fuga, calo degli iscritti: da più di 10 anni queste sono le parole d’ordine che scandiscono a ritmo regolare quello che appare come il lento declino dell’istituzione universitaria. Ma la parola “crisi”, così come il termine “declino”, sembra lasciare intravedere, in un lontano passato, un’età in cui la (quasi) perfezione regnava incontrastata. E allora ci si stupisce che tale paradiso sia stato distrutto, ci si domanda quale forza o quale potere abbia avuto la capacità e l’intenzione di espugnare la rocca del sapere e della scienza. Tale condizione perduta però non è altro che la proiezione di desideri la cui realizzazione non si è mai data.

1. La crisi costitutiva dell’Università

Sfogliando un qualsiasi testo che delinei anche in via approssimativa la storia dell’Università ci si trova davanti ad un percorso puntellato da innumerevoli crolli, riforme, mutamenti: pare che mai ci si sia stata pace o anche solo condizione di stallo, dal Medioevo fino ai giorni nostri. Da questo semplice dato di fatto credo si possa tranquillamente concludere che non solo per questa istituzione non sia mai esistita un’età d’oro da rimpiangere (né all’interno delle Accademia platonica, né entro il modello tedesco pensato da Humboldt e Schleiermacher, tanto meno nell’Università del Bologna Process), ma che, ancora oltre, essa sia costitutivamente un’organizzazione in perenne mutamento e trasformazione. La crisi è quindi non decadenza da una condizione privilegiata, bensì elemento essenziale delle sue fondamenta così mobili: ogni mutamento e trasformazione a un primo sguardo sembra essere un attacco proveniente dall’esterno ad una fragile roccaforte che richiede di essere difesa e sottratta dai condizionamenti esteriori. Attraverso il testo di Macherey, La parole universitaire2 è possibile compiere il primo passo per analizzare questa stessa fragilità, scoprendo che quest’ultima è parte costitutiva dell’Università stessa, non è un semplice difetto che possa essere corretto. Riassumendo la tesi fondamentale del testo: in un mondo in cui il sapere svolge un ruolo portante all’interno delle relazioni di potere, il luogo in cui ci si aspetta che la conoscenza venga prodotta non può che risentire degli equilibri economico-politici, patendo ogni smottamento e trasformazione. Nessuna cittadella autonoma, quindi, ma solo una pedina forgiata e manovrata dall’esterno.

Come ricorda Macherey, già a Kant era nota la peculiare condizione dell’istituzione universitaria: nel Conflitto delle Facoltà3 si evidenzia la stretta relazione tra Università e Stato ben prima delle riforme scolastiche di stampo statalista approntate da Napoleone. Se il filosofo illuminista da una parte cerca di illustrare un’istituzione che garantisca la libera ricerca della verità, dall’altra è ben consapevole che l’educazione scientifica da essa fornita ha lo scopo di formare uomini capaci di svolgere un determinato impiego: Geschäftsleute per le quali la conoscenza è strumento per entrare negli ingranaggi dello Stato, e che quindi non hanno alcun interesse ad espandere il proprio sapere al di là dei codici che consentono il funzionamento dell’organo statale; non si porranno alcuna domanda sul Codice Civile o sul Regolamento Sanitario, ad esempio: si limiteranno ad applicarlo. Come poter pensare, di fronte a ciò, che l’Università possa essere indipendente dallo Stato? Al di là del pensiero kantiano, cercare di vedere nell’istituzione universitaria un organo nettamente autonomo, un’isola felice in cui si inseguono disinteressatamente i giochi dell’astrazione (come nell’ironico romanzo di Hesse, Das Glasperlenspiel) o in cui si tenta la strada del potenziamento delle proprie facoltà mentali e fisiche quale fine in sé (come in Rabelais, Gargantua), significa non voler affrontare la realtà dei fatti. L’Università è passaggio per chi voglia assimilare regole, criteri, procedure atti ad intraprendere una professione che si inserisca nell’”ordine” socio-economico già dato. Come potremmo pretendere, dato che l’Università non è altro che uno strumento di governo, che essa si sottragga alle logiche del potere espresse nell’economia, nella società? Quanta ingenuità è necessaria per nascondere che in essa non si dà una semplice e pura ricerca disinteressata e autonoma?

Gli equilibri (e disequilibri) propri del mondo esterno all’Accademia non si riflettono in essa per il “solo” fatto che il primo impartisce i contenuti da affrontare durante le lezioni, mediante i quali (indirettamente) il Governo può amministrare il popolo – utilizzando ancora i termini kantiani. Solo per fare un paio di esempi, non è una contingenza storica se l’Università mediante l’aumento delle rette a carico degli studenti si mostra come un luogo elitario, così come non è un caso se le humanities sono sempre più bistrattate: non c’è alcuna autonomia da rivendicare, l’Università non è che lo specchio di ciò che ci si ostina ancora a chiamare il mondo fuori di essa. Ciò che chiamiamo “crisi” di quest’istituzione non è che semplice trasformazione e adattamento; che questo non ci soddisfi, è un altro affare.

Le trame del condizionamento sono ancora più capillari di quanto sembri al primo sguardo: Macherey ci ricorda, attraverso Lacan4, Bourdieu e Passeron5, che pure il discorso professorale in sé stesso, indipendentemente dall’oggetto che esso affronta, non è schiettamente neutro: per quanto il vanto di obiettività e autonomia faccia da sottofondo alle lezioni, questo serve solo a nascondere l’essenziale parzialità, l’assenza di un’emancipazione dal padrone. Dichiarando neutro il discorso professorale non solo si cela che il docente universitario altro non è che un funzionario statale, ma si dà a quest’ultimo il pretesto per non farsi carico della responsabilità del proprio parlare6. «Questa è scienza, non lo dico io»; l’educazione universitaria, predicando la propria oggettività e imparzialità, tende a nascondere che invece il procedimento di acculturazione non è un’apertura alla cultura generale, ma dà le regole per una cultura specifica: «il n’y a pas de processus éducatif socialement neutre, qui ne soit pas immergé dans les rapports de force constitutifs d’une formation sociale déterminée, et qui ne contribue pas à la reproduction de cette structure en en retranscrivant à sa manière les manifestations»7.

2. La filosofia nell’Università: un semplice passaggio.

Dopo questa descrizione, potrebbe risultare spontaneo domandarsi perché parlare ancora, e in questo luogo, di Università. Perché questa può diventare un nodo non banalmente passivo, permeabile e sottoposto a regole imposte: si dà la possibilità di pensare, entro di essa, un luogo che resti opaco e resista ai condizionamenti; in altri termini, si danno le condizioni di possibilità per la produzione di un sapere critico, in grado di riflettere su se stesso e sulle forme che delineano non solo i Dipartimenti, ma anche le conoscenze che in essi vengono impartite e approfondite. Macherey definisce questo territorio dedans du dedans dell’Università, e viene identificato con lo studio della filosofia. Tornando nuovamente a Kant, solo entro la Facoltà di Filosofia non deve essere impartito un codice prestabilito, e conseguentemente si mostra maggiormente predisposta a favorire una disinteressata ricerca della verità.

machereyMa le difficoltà si trovano anche qui: la stessa posizione kantiana venne ben presto oscurata dal progetto dell’Università di Berlino esaltata da Hegel nel 1818, in cui la separazione tra filosofia e spirito oggettivo, e Stato, non è così nettamente definibile. Per non nominare poi il ruolo svolto dalla filosofia all’interno della Francia post-rivoluzionaria: lo stesso Macherey ricorda altrove che in tale arco di tempo si diede una sintesi tra filosofia e pedagogia proprio nel momento in cui «l’école publique […] s’est substituée à l’Église afin d’assurer […] un governement des esprits»8.

Sembra che il percorso sia quindi poco chiaro e molto impervio: come trovare (ma soprattutto creare) questo dedans du dedans, un luogo per la ricerca slegata dalle regole che tessono i rapporti economico-sociali? Come concepire spazi per una formazione che non abbia come semplice scopo la produzione di cittadini ben educati, di professionisti facilmente sfruttabili e manipolabili? Un barlume in questo fosco panorama comunque resta; perché non esiste solo l’educazione impartita dall’alto, la formazione che ha lo scopo principale di inculcare manuali, termini e procedure che alimentino la subordinazione. La possibilità che nell’Università si possa dare una figura professorale che se da un lato resta un impiegato statale, dall’altro sembra in grado di procedere senza farsene influenzare; un personaggio che un insistente Macherey identifica con il docente di Filosofia, in quanto a questo non vengono imposti gli oggetti di insegnamento. Un docente, ancora, che non proceda per pedissequa affermazione della propria autorità sugli studenti (la cui unica libertà resta altrimenti solo quella di non ascoltare), ma si limiti ad essere una sorta di guida il cui scopo ultimo è il rendersi superfluo. Se questo è il suo ruolo, è possibile che si dia uno spazio di libertà ed emancipazione all’interno di uno strumento così fondamentale per il disciplinamento e l’amministrazione.

Lo spazio del “filosofare” (che sempre Kant ricorda essere più della semplice lettura di testi di filosofia, ma comunque e sempre meno dell’esser filosofi) quindi può darsi come territorio di conquista. Non certo per risolvere le aporie proprie dell’istituzione universitaria (che così come è nata, dobbiamo aspettarci che prima o poi muoia), ma per conseguire la possibilità di una formazione sottratta alle logiche di produzione di individui-ingranaggi, per uomini e donne in grado non solo di criticare la stessa istituzione di formazione, ma anche le logiche a cui essa è sottomessa. Ancora una volta, non per sottrarla ad esse: l’Università moderna è per costituzione permeabile, non è mai stata (per fortuna) una torre d’avorio ovvero un semplice archivio antico, sottratto ai mutamenti.

Ancora, possiamo domandarci se necessariamente questa possibilità si dia solamente entro un determinato Dipartimento9, se la figura di guida che si propone in ogni formazione ed educazione possa darsi esclusivamente entro l’Università, oppure, ben oltre, se la pericolosità sempre in agguato appena si prende in considerazione un personaggio-guida possa essere in qualche modo definitivamente esclusa. A complicare ulteriormente il quadro, c’è il bisogno di costruire un piano non occasionale di discussione, di formazione, in cui la scientificità non lasci spazio al pourparler e alla semplice propaganda fuorviante di semplici idee affascinanti, che allontanano dalla produzione di un pensiero critico molto più di quanto non faccia la lezione universitaria.

Ma fermiamoci qui, con la proposta di procedere in questa direzione. Verso la creazione di una superficie che taglia l’istituzione d’obliquo, ma non fermandosi semplicemente in essa, bensì procedendo verso l’esterno; e in questa apertura non semplicemente recettiva, ma anche costruttiva, propositiva e inventiva collocarci e pensare una Bildung che non abbia il proprio fuoco nell’alto di codici imposti.

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  1. Appunti da Pierre Macherey, La parole universitaire, trad. it. a cura di A. S. Caridi La parola universitaria, Orthotes editrice, Salerno 2013, 262 pp., € 17.00 

  2. Macherey P., La parole universitaire, La Fabrique éditions, Paris 2011. 

  3. Kant I., Der Streit der Fakultäten, in Kant I., Kant’s gesammelte Schriften, Bd. VII, Hrsg. von der Königlich Preuβlischen Akademie der Wissenschaften, Walter de Gruyter, Berlin-Leipzig 1917. 

  4. Ci si riferisce a Lacan J., Le séminaire livre XVII. L’envers de la psychanalyse, Éditions du Seuil, Paris 1991. 

  5. Il riferimento è a Bourdieu P., Passeron J.-C., Les Héritiers. Les étudiants et la culture, Éditions de Minuit, Paris 1964 e a Bourdieu P., Passeron J.-C., La Reproduction. Éléments pour une théorie du systéme d’enseignement, Éditions de Minuit, Paris 1970. 

  6. “Professore”, ricorda Derrida, viene da ”professare”, ovvero « dare un pegno impegnando così la propria responsabilità. “Fare professione di”, significa dichiarare francamente quel che si è, quel che si crede, quel che si vuole essere, chiedendo all’altro di credere a questa dichiarazione sulla parola», Derrida J., Université sans condition, tr. it. di Berto G., in Derrida J., Rovatti P. A., L’Università senza condizione, Cortina Raffaello, Milano 2002, p. 29. 

  7. Macherey P., La parole universitaire cit., p. 241. 

  8. Macherey P., Études de philosophie “française”. De Sieyès à Barni, Publications de la Sorbonne, Paris 2013. 

  9. Ricordiamo solo di sfuggita la polemica tra lo stesso Kant e Schelling: quest’ultimo riteneva che l’insegnamento della filosofia dovesse essere impartito in ogni corso di laurea, senza riservargliene uno specifico. Cfr. Schelling F. W. J., Vorlesungen über die Methode des akademischen Studiums, Meiner, Hamburg 1990.