di ROBERTO CICCARELLI.* I precari dell’università sono “studiosi altamente qualificati” che non hanno bisogno di un sussidio di disoccupazione quando la loro borsa di studio finisce e attendono la successiva. Sempre che l’ateneo abbia i fondi sufficienti e non li faccia aspettare anni. Nell’attesa, potranno continuare ad approfondire le “attività di studio e di ricerca scientifica” gratis per il loro docente di riferimento.
Questa è la posizione ufficiale del ministero dell’università (Miur) che, per bocca del sottosegretario Davide Faraone, ieri ha risposto a un’interrogazione presentata il 13 gennaio da Annalisa Pannarale (Sel) sull’estensione agli assegnisti di ricerca, ai dottorandi e ai titolari di borse di studio del sussidio di disoccupazione Dis-Coll. I precari della ricerca non sono lavoratori, ma studiosi. E, pur firmando un contratto a termine non sono paragonabili a tutti i parasubordinati e alle partite Iva che come loro versano il 27,72% del reddito mensile nella gestione separata dell’Inps. A loro non vanno le tutele e gli ammortizzatori riconosciuti a tutti gli altri lavoratori.
La risposta a una richiesta che negli ultimi mesi è stata già respinta dal ministro del lavoro Poletti è tutta da leggere. I giovani ricercatori,
“non rientrano nell’ambito di applicazione soggettivo della nuova indennità di disoccupazione mensile, seppure iscrivibili alla gestione separata INPS — ha detto Faraone — in quanto tali soggetti svolgono attività non riconducibili alle collaborazioni coordinate e continuative. Tali fattispecie, infatti, hanno una finalità diversa da quelle per le quali è stata introdotta la norma sopra richiamata, ovvero quello di formare studiosi altamente qualificati mediante lo svolgimento di attività di studio e di ricerca scientifica.”
Per Poletti la ricerca è un hobby: niente disoccupazione ai precari.
La ricerca, in Italia, è un esercizio dello spirito, della generosità personale di uno “studioso” verso l’istituzione che lo forma. Persone di 30–40 anni (questa l’età media dei precari universitari) non lavorano. Tanto meno all’università. Donano il loro tempo gratis all’Inps e allo Stato.
Lo studioso si fa pagare da mamma e papà la disoccupazione. Specialisti di filologia romanza, architetti, economisti o biologi cercatevi una rendita, piuttosto che aspirare a un diritto. Il vostro non è un lavoro, sostiene Davide Faraone. Oppure, ha aggiunto Faraone, c’è da sperare in uno dei 500 posti per i “ricercatori ad alta velocità” chiamati senza passare dall’abilitazione nazionale e direttamente da atenei e ministero dell’istruzione oppure nei mille promessi nella legge di stabilità. Questi i numeri messi in campo dal governo. Per 60 mila precari ci sono 1500 posti, 500 dei quali non riservati a loro. Una presa in giro, pensare che questo basti a risolvere il precariato nella ricerca. Ma proprio questo sostiene Faraone: “concorreranno a ridimensionare notevolmente il fenomeno del precariato nelle istituzioni universitarie e di ricerca”.
“La ricerca e lo studio — che ne è sempre alla base — non sono attività dotate della dignità di un vero e proprio lavoro — è il commento dei dottorandi dell’Adi e del sindacato Flc-Cgil — il MIUR continua nell’opera di delegittimazione delle migliaia di giovani ricercatori che nel corso di questi difficilissimi anni hanno dato un contributo fondamentale al quotidiano funzionamento di atenei privi di risorse economiche e della possibilità di un efficace ricambio del corpo docente. Invece di provare a segnare un cambio di rotta, il MIUR sceglie di assestare un altro colpo a quelle “fattispecie” che nonostante la crescente precarizzazione del loro percorso di vita e di ricerca, nonostante il drastico restringersi delle prospettive di valorizzazione delle loro competenze, hanno continuato a contribuire alla crescita della conoscenza nel nostro Paese”.
*** aggiornamento, sabato 16 gennaio, h 20,52:
Dopo essere stato bersagliato su twitter e facebook il sottosegretario Faraone ha cambiato idea da purosangue renziano qual è. In soli due giorni ha negato e poi riconosciuto, ma e ai soli assegnisti di ricerca, il diritto alla disoccupazione. “Per loro ci assumiamo l’impegno di prevedere adeguati ammortizzatori sociali di cui possano beneficiare al termine del loro rapporto con l’ateneo. Perché la ricerca è lavoro vero. Anche quello che si svolge durante un assegno di ricerca” ha scritto. Esempio di schizofrenia, o di populismo applicato alla ricerca del consenso last-minute, Faraone dimentica che tanto gli assegnisti quanto i dottorandi e i borsisti versano i contributi alla gestione separata dell’Inps. Quindi sono lavoratori che mettono da parte la pensione. Escluderli dal beneficio della Dis-Coll sarebbe un’ulteriore discriminazione in un mondo, quello universitario, che non ha nulla del galateo da “studioso qualficato” e molto della violenza che governa la società italiana. Soprattutto quando si tratta di negare a qualcuno un diritto.
*quest’articolo è stato pubblicato da il manifesto il 16 gennaio 2016