di CRISTINA MORINI. (da effimera.org) Che occasione avremo, tra poche ore, il giorno 8 marzo 2017. Partecipare e contribuire a fare grande, da vari punti del pianeta, lo sciopero globale femminista inventato nell’era precaria. Un mosaico condiviso di frammenti, come una immensa coperta patchwork fatta di più trame, fili e colori, che tutti disegnano un ordito comune. Esso dichiara: rigettiamo le condizioni di vita indicate dal potere. Noi scioperiamo da una impalcatura di ruoli, compiti, immaginari entro la quale ci costringete, senza reddito, senza garanzie. Le nostre singole esistenze valgono e tutto congiura a farci credere il contrario. Aderiremo, dunque, da varie parti nel mondo, a uno sciopero precario che innerva molti piani (il lavoro, la cura, il welfare, la cultura, il rapporto con la natura, con i consumi, l’educazione, le relazioni), scommettendo sul dipanarsi di una giornata particolare e sull’astensione, concreta e figurata, da una serie di infiniti atti e compiti che compongono milioni di giornate usuali. Uno sciopero che fornisce l’occasione di incontrarci nelle piazze, corpi insieme che “compongono un’alleanza” e che rivendicano altri presupposti per la vita. Poiché, seguendo Judith Butler,

“quando i corpi si raggruppano nelle strade, nelle piazze o in altre forme di spazio pubblico incluse quelle virtuali, essi esercitano un diritto plurale e performativo di apparizione, un diritto di affermazione e di insediamento del corpo al centro del campo politico e, nella loro funzione di espressività e di significazione, pongono l’istanza corporea di un insieme di condizioni economiche, sociali e politiche più vivibili, sottratte alle forme indotte dalla precarietà”[1].

Lo sciopero dell’8 marzo 2017 si configura dunque, a tutti gli effetti – come già altri tentativi simili ma con più forza, perché è immediatamente immerso nella dimensione riproduttiva della vita-lavorata, contro la violenza dell’espropriazione – come uno sciopero biopolitico. Non un singolo momento ma un progressivo processo costitutivo di scostamento dai presunti codici fatali del sistema neoliberale e di riappropriazione dell’esistenza, in opposizione a chi pretende esplicitamente di usarla come contenuto diretto della propria attività. Esso indica la necessità di disfarsi dei condizionamenti e di disimparare tutto ciò che ci viene imposto. Questa dell’8 marzo 2017 è una prova, ma dovremo continuare e insistere lungo tale traccia. Altra strada al momento non v’è.

Il sogno del capitale…

Dal femminismo ho appreso ad usare la categoria di “riproduzione sociale” intendendo con ciò qualcosa di più e di oltre la questione della riproduzione biologica o domestica, cioè riproduzione della forza lavoro in una dimensione fordista di netta divisione sessuale del lavoro, un ambiente costruito su dicotomie. Le questioni sono oggi assai più complesse e intrecciate. Per riproduzione sociale intendo un meccanismo che innesca processi di accumulazione oggi più larghi di quelli già garantiti dalla riproduzione biologica o domestica intesa nell’accezione “classica” – dato per inteso che entrambi questi processi sono già sociali. Lavoro socializzato nelle reti sociali, connessioni basate su bisogni della vita, cooperazione che viene sfruttata dal platform capitalism, riproduzione della intera società: questa è la novità della accumulazione contemporanea, basata, appunto, su processi riproduttivi del sociale e sulle differenze. Insomma, anche “la produzione sociale è unicamente la produzione desiderante stessa in condizioni determinate”, con Deleuze e Guattari[2].

Tutto ciò – nei disegni del capitale – non vuole dire un felice superamento della differenza, dunque approdo a quel “luogo terzo” che ritroviamo nelle rappresentazioni immaginifiche di Daniela Pellegrini[3]. Simone de Beauvoir ha scritto:

“La donna ci è mostrata in preda alla sollecitazione di due modi diversi di alienarsi; è chiaro che “giocare all’uomo” sarà per lei una fonte di insuccesso; ma “giocare alla donna” è pure una vana lusinga: essere donna significherebbe essere l’oggetto, l’Altro; e l’Altro resta soggetto in seno alla sua rinuncia”[4].

Essere l’Altro, essere soggetti in seno alla propria rinuncia, va, nel presente, nel senso paradossale di ciò che è richiesto alle nostre identità algoritmiche, alle nostre vite online, che ci spingono a comportarci, ancora una volta, in maniera coerente con le aspettative del codice, a non deviare dalla norma. Il capitalismo “collettivizza”, ancora, la propria lingua, la propria legge, la propria parola. La lingua algoritmica è priva delle sfumature della differenza anche se assorbe e succhia tutta la linfa dai singoli soggetti. Convoglia desideri e libertà, generando uno standard accettato da tutti. Grazie alle piegature di una interpretazione algoritmica, si procede per inglobamento di differenza e verso la sua contemporanea neutralizzazione, verso una società pienamente post-identitaria costruita su macro-categorie adatte ai consumi e alla valorizzazione.

Se non si assume questo, non si può comprendere veramente il concetto di femminilizzazione del lavoro e i rischi conseguenti, né ha veramente senso parlare di tentativi di cattura come il diversity management, né di pinkwashing. Né si riesce, a mio avviso, a capire da dove derivi un plusvalore più esplicitamente legato alla vita, né si afferra l’ingiunzione alla brandizzazione del sé associata alla precarietà.

L’intero ciclo dell’esistenza, la sua potenza, è l’oggetto principale di intervento della governamentalità neoliberale. L’applicazione delle tecnologie al processo ri-produttivo accorda la più immediata e diretta socializzazione del lavoro mai vista e i profitti conseguenti, senza alcuna necessità di mediazioni, prima di tutto salariali. Non ci sono più “intercessioni” statali, non si vedono mediazioni welfaristiche. Anzi, il welfare stesso tende a trasformarsi e a diventare un fattore direttamente produttivo, campo di inedite sperimentazioni della “innovazione sociale” con conseguenti, e fino a ora non del tutto chiare alle nostre latitudini, segmentazioni e gerarchie (nuovi processi di inclusione/esclusione che si traducono nella possibilità di curarsi e sopravvivere) tra le persone. Si veda, a titolo d’esempio, il Rapporto Oasi 2016, Osservatorio sul sistema sanitario italiano, a cura della Università Bocconi, della Sda Bocconi e del Cergas (Centro di ricerche sulla gestione della assistenza sanitaria sociale) nel quale si legge: “Il 70% delle risorse del Fondo Sanitario Nazionale viene trasferito a economie terze come corrispettivo per beni o servizi (imprese farmaceutiche e di medical device, facility management) o per l’erogazione di assistenza per conto del SSN (strutture sanitarie private accreditate, farmacie e professionisti convenzionati). Cosicché, richiamando i modelli input-output di interdipendenza settoriale (Leontieff, 1986), la spesa sanitaria pubblica è oggi un formidabile strumento di politica industriale”. E, più avanti: “Gli erogatori privati offrono servizi per conto del SSN per un valore pari a 24 miliardi, corrispondente al 21% dell’intera spesa sanitaria pubblica […]. Sommando anche la quota di servizi erogati in out-of-pocket e attraverso fondi e assicurazioni (18 miliardi), gli erogatori privati offrono prestazioni per 42 miliardi, quasi un terzo della spesa sanitaria globale”.

Il capitalismo bio-cognitivo è un sistema di accumulazione e un dispositivo di sfruttamento assai più duttile e modulare del fordismo, con un andamento a spirale, altalenante, a onde. Il legame sociale non cala dall’alto, già predisposto, ma va costruito, si costruisce. In questo momento, effettivamente la narrazione che si è imposta, che si è impressa sulla soggettività, che l’ha impressionata[5], ha giocato contro la dimensione collettiva, stimolando invece il sé. Un sé che è libero di sognare solo il sogno del capitale. Ma il nostro corpo sociale ci manca.

… e il desiderio dissidente

Per stare allora ai compiti politici che abbiamo di fronte, questo è il tempo in cui è necessario organizzare l’azione politica nella maglie della vita, della riproduzione sociale, più che in quelle del lavoro, perché è lì che si genera oggi il verbo dell’estrazione. Il biocapitalismo lo sta facendo, le piattaforme del capitale sono processi di organizzazione di forme di vita, si dispongono come servizi a bisogni della vita materiale e immateriale (socialità; risposte alla solitudine; incontro; amore; sesso; automobili; cibo da mangiare; cura dei bambini; degli animali; degli anziani; ripetizioni…).

In questi mondi si cambia di segno e si distorce, a fini di profitto, il modello della cura, traducendolo in management della cura e connettendolo ai concetti di capitale umano e di fungibilità del tempo-denaro umano (time-budget delle attività umane), perfetta incarnazione di quella teoria del valore-vita sulla quale vale la pena di continuare a riflettere.

Di conseguenza, riorganizzare il proprio spazio vitale e relazionale diventa una forma di resistenza eminentemente politica. Porsi dunque come outsider per ritrovare un respiro, per ricostruire un contesto erotizzato. Sottrarsi dal lavoro, dalla subalternità di una condizione salariata completamente in crisi, amputata di diritti, che non consente la possibilità di riprodursi se non dentro uno schema che annienta. Pensare secondo tali modalità è una forma di sciopero, è una forma di riappropriazione.

Lo sciopero biopolitico dell’8 marzo si muove lungo tale direttrice: la tensione umana verso la cooperazione va rimessa nelle condizioni di creare un ambiente di vita, cooperativo ma non uniforme e univoco. È questo, probabilmente, il “non tutto”, essenza femminile, “un’Ombra come la chiama Jung che genera rivoluzioni e sbriciola, con l’andar del tempo, l’universo maschile in cui stiamo stati ‘a forza’ collettivizzati”[6]. È questo il divenire donna, mentre l’universo maschile arranca, risponde con inaudita violenza perché raffigura un mondo e un’idea di cittadinanza venuta meno (l’inutile lavoro di cittadinanza). La società salariale declina: il divenire donna apre all’era della cooperazione? La crisi del lavoro standard può rappresentare l’opportunità di esprimere una serrata critica al modello produttivista e ai suoi addentellati, ai tempi, ai valori di cui tale modello è stato portatore? Può tradursi – anche grazie all’ausilio delle tecnologie – in una liberazione del tempo e in uno spostamento sempre più preciso di attenzione, risorse, energie verso gli ambiti che ci gratificano e danno un senso alla vita e alle relazioni? La ricerca deve andare nel senso di liberare spazi e momenti di vita. Deve, ricordando la prassi della relazione fra le donne, costruire una politica del desiderio[7], o meglio ancora un desiderio dissidente.[8]

A partire da una ri-considerazione della riproduzione come “tutta sociale da parte di tutti, possiamo immaginare forme di cooperazione con inediti sviluppi e articolazioni tra libertà di scelte e condivisione, progetti di welfare e lotte per ottenere socializzazioni almeno della parte materiale della riproduzione”[9].

Lo sciopero globale delle donne, 8 marzo 2017, va nel senso di riaggregare i corpi intorno a un’idea di futuro diversa, offrendo occasioni a forme di empowerment psicosociale alla soggettività, contro gli imprinting del neurocapitalismo. A partire dalla diversa significazione della vita che le donne stanno rivendicando, lo scenario si schiude progressivamente a una diversa pratica di soggettività.

NOTE

[1] Judith Butler, L’alleanza dei corpi, trad. it. Federico Zappino, Nottetempo, Milano 2017, pag. 22

[2] Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1975), trad. it di Alessandro Fontana, Einaudi, Torino 2002

[3] Daniela Pellegrini, Una donna di troppo. Storia di una vita politica singolare, Franco Angeli, Milano 2012

[4] Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 1961.

[5] Federico Chicchi, Emanuele Leonardi, Stefano Lucarelli, Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale, Ombre Corte, Verona 2016

[6] Antonello Sciacchitano, “Verso una psicanalisi del soggetto collettivo”, in Aut Aut: Bernard Stiegler. Per una farmacologia della tecnica, a cura di Paolo Vignola e Sara Baranzoni, n. 371, Il Saggiatiore, Milano 2016

[7] Lia Cigarini La politica del desiderio, Pratiche editrice, Milano 1995

[8] Lea Melandri (a cura di), L’Erba voglio. Il desiderio dissidente, Baldini e Castoldi, 1998

[9] Alisa del Re, Alcuni Appunti sulla riproduzione sociale, testo online https://www.euronomade.info/?p=6574

Rielaborazione dell’intervento svolto durante il seminario “Le piattaforme del capitale” organizzato da EuroNomade con Macao, 3-4 marzo 2017

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