Di ROBERTA POMPILI.

Il libro Mobility Justice. The politcs of Moviment in an Ages Extremes, di Mimi Sheller  (Verso, 2018) è un testo denso in grado di articolare una lettura della molteplicità che costella i campi del potere e dello sfruttamento nella società contemporanea. La chiave analitica che questa docente alla Drexell University di Filadelfia utilizza è quella della “mobilità”, ovvero lo studio delle politiche e delle relazioni di potere che producono capacità ineguali di movimento.

Sheller si concentra non solo sul movimento in sé, ma sul potere che hanno i discorsi, le pratiche e le infrastrutture della mobilità nel creare sia movimento che della stasi, smobilitazione e successiva  rimobilizzazione. Tali discorsi, pratiche e infrastrutture della mobilità sono culturalmente modellati da ciò che può essere definito come un assemblaggio: di attori sociali, di azioni e significati influenzati proprio da quei regimi di mobilità che regolano chi e cosa può muoversi (o restare), quando, dove, come, in quali condizioni e con quali significati.

Centrale nell’analisi della studiosa è il concetto di scala, ovvero quella costruzione sociale che per i geografi urbani descrive il movimento intrappolato nelle diverse dimensioni di spazio- temporali. Il suo utilizzo da parte di Mimi Sheller porta a ripensare le tre crisi contemporanee, apparentemente separate – crisi del clima, crisi dell’urbanizzazione e crisi delle migrazioni- dentro un’unica trama.

Il cambiamento climatico è, infatti, una crisi di mobilità in almeno tre modi: le emissioni legate al trasporto sono un fattore determinante per il riscaldamento globale, rappresentando circa un quarto delle emissioni globali di gas a effetto serra; gli ambienti costruiti e gli usi terrestri che sostengono i modelli attuali della vita mobile stanno guidando il cambiamento climatico globale e l’inquinamento della terra e dell’acqua; infine il cambiamento climatico sradica le persone e interrompe i sistemi infrastrutturali e le catene di approvvigionamento in tutto il mondo, guidando la migrazione ambientale di fronte al collasso ecologico e sociale.

L’altra grave crisi che si sviluppa su scala mondiale è quella legata alla crescita urbana e alla diffusione dell’”automobilità” (ovvero un sistema di interblocco di automobili, autostrade, infrastrutture di rifornimento, aziende automobilistiche, politiche governative e culture automobilistiche) sequenziale e al tempo stesso fattore di accelerazione proprio all’espansione urbana e del consumo di risorse, nonché fattore che alimenta disuguaglianze sociali, furto della terra e sfratti di massa nelle megalopoli in giro per il mondo. Ciò ha prodotto una paralizzante congestione del traffico, livelli pericolosi di inquinamento atmosferico, carenza di energia e, in molti casi, carenza idrica.

La stessa crisi dei rifugiati, per Sheller, lungi dall’essere un evento eccezionale, rappresenta piuttosto l’effetto delle politiche in corso di privatizzazione e cartolarizzazione di terre e spazi urbani, “recinzioni” che limitano l’accesso al welfare state. Le questioni dei confini, delle migrazioni e dell’”umanitarismo” devono essere quindi collocate nel contesto dell’urbanizzazione globale, dei cambiamenti climatici, delle relazioni sociali transnazionali modellate da processi razziali, di classe, di genere e sessuali: fattori tutti che hanno una forte eco nella governance della (im)mobilità.

La studiosa non assume tuttavia il movimento e la circolazione come fenomeni legati alle condizioni del nuovo mercato globale. La premessa indispensabile del “nuovo paradigma di mobilità” sostenuto da Sheller – e insieme dal sociologo John Richard Urry – è una teorizzazione interdisciplinare basata su una “ontologia mobile” dove il movimento è una condizione primaria,  fondamentale dell’essere e del potere. L’”ontologia mobile” aiuta inoltre ad immaginare una diversa relazionalità, dove “nulla preesiste alle relazioni che lo costituiscono”. Piuttosto che iniziare l’analisi sociale dalla prospettiva sedentaria degli stati-nazione e delle società, o anche di singoli e gruppi, come se si trattasse di oggetti preformati che rimbalzano l’un con l’altro come palle da biliardo, il “mobility turn” si propone di rilevare le relazioni, le risonanze, le connessioni, le continuità e le interruzioni che organizzano il mondo in formazioni mobili temporanee ma in continuo movimento.

Mobility justice si addentra a ripercorrere le intersezioni della kinopolitica con i sistemi di gerarchia razzializzata/di genere/sessualizzata. Potremmo dire che tutti i processi razziali, gli spazi razzializzati e le identità razzializzate sono profondamente condizionati dalle mobilità differenziali. I confini razziali si formano, si riformano e si trasformano attraverso relazioni mobili di potere e i progetti razziali riguardano la gestione delle mobilità (deportazione neoschiavismo, apartheid, securitarismo). La differenza e la diseguaglianza di genere e sessuale è, inoltre, uno dei principali dispositivi intorno ai quali istituzioni ed enti producono mobilità differenziata attraverso processi intrisi di potere sociale, culturale, economico, politico e geografico. Sheller cita a questo punto il lavoro di Paul Virilio L’Horizon negatif (tradotto in Italia dalla casa editrice Costa&Nolan, ma da allora assente purtroppo nelle librerie), nel quale il filosofo ex-militare francese espone la sua teoria sul ruolo che la velocità e la accelerazione hanno nell’ascesa di una politica del tempo e dello spazio e nel quale propone una rappresentazione piuttosto rigida della mobilità di  genere differenziata. Virilio include, infatti, la gestazione stessa nel modo in cui il feto (maschio) inizia il suo viaggio. In questo modo evidenzia la fondamentale disuguaglianza nelle forme del trasporto umano, mettendo così in tensione la libertà di movimento al dominio esercitato sul corpo degli altri, sia che siano donne, animali, schiavi: una violenza strutturale – che si identifica con l’acquisizione di un potenziale differenziale per la guerra/caccia – e che si riflette nell’asimmetrico potere di trasporto o di logistica.

Le forme esistenti di crescita capitalistica, urbanizzazione planetaria ed estrazione delle risorse hanno dunque comportato surriscaldamento dell’atmosfera e reso precaria la vita sulla Terra. Le politiche locali dei trasporti e della gestione urbana non saranno tuttavia sufficienti per fermare questi processi multi-scalari. Né saranno sufficienti le nuove tecnologie, o la sharing economy per combattere l’élite cinetica e i processi in continua espansione dell’urbanizzazione industriale militare-industriale. Il suggerimento dell’autrice è di dotarci di nuovi strumenti ontologici, come quelli che provengono dalle filosofie femministe e queer e da i movimenti globali del sud e delle politiche indigene.  Justice mobility  rappresenta, dunque, un libro importante da leggere, per ripensare in termini intersezionali, multi scalari, in una visione mobile e non stato-centrica  le contraddizioni del nostro iniquo sistema sociale.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto in una versione ridotta il 26 giugno 2019 con il titolo “Le crisi del presente che si leggono in un’unica trama”. 

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