Di TONI NEGRI.
L’ambasciatore francese è stato richiamato da Palazzo Farnese al termine di una guerriglia che ormai dura da mesi tra Macron e Salvini-Di Maio. Sul fondo ci sono un sacco di cose: l’affare libico, quello Finsider, lo scontro migratorio. Su questi temi i nostri italici eroi hanno tutto da perdere dalla pesante reazione di Macron e va sottolineato che non sembra gliene importi qualcosa. Dove Macron invece è stato colpito in maniera drammatica fino, appunto, al ritiro dell’ambasciatore, è quando Di Maio ha toccato il punto debole del macronismo, i gilets jaunes. Oltretutto lo ha fatto sbagliando indirizzo, ché infatti si è rivolto alla frazione più equivoca e decisamente fuorigioco del movimento. Perché una reazione tanto pesante da parte di Macron, si saranno chiesti i lettori di giornali e media ufficiali italiani? Dei gilets jaunes che cosa sanno infatti? Sanno che sono una strana banda di buontemponi che ogni tanto si scontrano con la polizia e incendiano cassonetti dell’immondizia, che sono una sorta di autonomi parafascisti refrattari all’ordine ed alla democrazia… perché mai richiamare l’ambasciatore davanti a siffatto folclore? Troppo rumore per nulla? Si può a questo punto notare che i media sono prigionieri della loro politica nei confronti dei gilets jaunes. Essi sono stati infatti isolati dall’informazione ufficiale in maniera totalitaria, esistono (in Francia) al massimo per poche ore quando i giornali domenicali ne indicano i misfatti del sabato, e altrove (in Europa ed in Italia in particolare) neppure nei giornali domenicali. L’isolamento mediatico è stato impermeabile ed anche a sinistra, in Italia, persino sul Manifesto risultano antipatici al corrispondente parigino e non hanno goduto di alcuna pubblicità. L’importanza del movimento dei gilets jaunes è stato dunque completamente nascosta ed ora risulta davvero sbalorditiva la reazione di Macron all’infelice viaggio francese di Di Maio.
Di contro, i gilets jaunes tengono ormai da due mesi, senza flettere, anzi aumentando l’impatto sociale. Se la stampa e la televisione francesi li ignorano, i social media sono colmi della loro presenza. Da due mesi il governo di Macron è bloccato, non fa più niente, se non inseguirli. Da un mese un Presidente arrogante ed un Presidente del Consiglio (il meno che si possa dire è che è misantropo) son costretti ad un nervoso dibattito qua e là per la Francia, proprio sui temi proposti dal movimento dei gilets jaunes. In genere parlano con i sindaci che li ricevono con riguardo, ma gli dicono esattamente quel che gli direbbero i gilets jaunes che infestano i loro territori. Ma i gilets jaunes respingono il grande dibattito che dovrebbe determinare un tessuto di comprensione e proposte reciproche: lo respingono a ragione perché il dibattito non è altro che un tentativo di riassorbirli nel gioco della rappresentanza. Nessuno dei temi che sta loro più a cuore come quello di una riforma radicale della redistribuzione del reddito e della politica fiscale sono ammessi nel dibattito. E così il grande dibattito gira su se stesso, al più risulta un terreno di rinnovata campagna elettorale per Macron, mentre i gilets jaunes continuano (avendo ancora la maggioranza della popolazione francese accanto) a sfidarlo ogni sabato. Abbiamo già superato la dodicesima settimana. A far dispetto al potere ci son cortei ordinati, disturbati da provocazioni poliziesche continue, in un clima che la legge anti-casseurs ora approvata alla Camera sembra definire di guerra civile. Tranquilli, i gilets jaunes tengono sia sulla durata che nell’estensione territoriale del movimento. Una contromarcia organizzata una domenica a Parigi è miseramente fallita. È vero poi che ci sono varie iniziative intese alla formazione di un partito, richieste e appoggiate dal potere che riconosce nel rifiuto – egemone – dei gilets jaunes della rappresentanza, una rottura insopportabile dell’ordinamento costituzionale. Queste ultime iniziative sono sostenute in maniera spudorata dai media ufficiali, e sembra che Macron abbia detto: “Fate un partito, pago io”. Ma questi tentativi sono del tutto irrilevanti, e difficilmente riusciranno. Tanto più che il dibattito sull’organizzazione si è ora aperto tra i gilets jaunes, mettendo in piedi dei meccanismi federativi sul terreno nazionale, delle “assemblee di assemblee” che cominciano a discutere le regole del gioco, a dissolverne i parametri rappresentativi e ad inventare nuove forme di quel rapporto tra orizzontalità del movimento e verticalità della decisione che affascina i veri democratici ormai da molti anni. Di questo discuteremo in un prossimo articolo.
Perché dunque Macron è arrivato alla grottesca decisione di richiamare l’ambasciatore da Palazzo Farnese? Non perché faccia molto conto di Di Maio, ma perché schiacciare il movimento dei gilets jaunes, togliergli ogni rapporto nazionale e tanto più internazionale, è diventato, dietro gli eventi che si susseguono, un punto ossessivo di Macron e del suo governo. Ed è interessante che questo avvenga nel momento in cui il passaggio da moltitudine a classe avanza nei comportamenti dei gilets jaunes. Il 5 febbraio, di martedì, gilets jaunes e sindacati (CGT, FO, Sud) si sono uniti in manifestazioni che a Parigi hanno visto cortei di 20000 persone e in Francia di 300000. Al centro di questa convergenza delle lotte, che negli ultimi anni era stata vanamente cercata dal sindacato, sia nelle lotte contro la Loi Travail sia in quelle dei ferrovieri, stanno le rivendicazioni sul salario sociale, ed in genere tutte quelle che vertono sulla biopolitica (welfare) della condizione di classe. Insomma è stato indetto uno sciopero generale sul costo della vita e la rivalutazione dei salari cui i gilets jaunes hanno partecipato massicciamente. La mia impressione è che il sindacato sia quasi tramortito dall’importanza di questa convergenza. Vedremo come si andrà avanti: c’è una nuova sinistra da fondare.
È questo un evento che comincia a spiegare l’ossessione macroniana sui gilets jaunes: si sta formando in Francia un fronte di sinistra, di lotta di classe che innova completamente rispetto alle tradizioni di questo paese (e di molti altri). Che strano che in Italia non ce ne s’accorga. È come se si fosse felicemente realizzata la Coalizione sociale di Landini, quella proposta quattro, cinque anni fa: qui in Francia s’è costituita, e va in piazza con 300000 persone. Ma neppure il Manifesto riesce a sbalordire. Questo rapporto del sindacato e dei gilets jaunes non è un matrimonio né un’alleanza, ma è un incontro politico che si basa su un’identità di obiettivo, il salario sociale, e sulla ricerca di passare da un livello di protesta, potente quanto inefficace a piegare il potere, a lotte, come lo sciopero nel settore produttivo, che facciano immediatamente male e spostino le forze padronali su un terreno contrattuale. È contro la ricomposizione in classe di una moltitudine finora dispersa che la politica di Macron è ormai disposta. Vi si segnala un decisivo spostamento a destra del suo discorso e del suo bacino di consenso. La politica repressiva decisa ed approvata in questi giorni tocca livelli di durezza tali da assomigliarla a quelle senz’altro totalitarie (vale a dire che per esempio, in Francia, oggi si può andare in galera non perché lo decide il giudice ma perché lo decide un poliziotto o il prefetto). La situazione è caotica, ma è appunto un utile caos dentro il quale si leggono, accanto all’isterica risposta di Macron, alla moltiplicazione degli strumenti repressivi, un’inaudita convergenza di forze sociali autonome e di vecchi istituti della classe operaia. Non è solo caos, e anche quando lo fosse, sarebbe un utile caos.