di GIROLAMO DE MICHELE.

La nuova edizione (arricchita da tre nuovi saggi) di Valutare e punire (Cronopio 2019, pp. 306, € 15), libro col quale Valeria Pinto ha segnato, nel 2012, un punto fermo nel dibattito critico sulla valutazione nei sistemi di apprendimento, si apre con uno spiazzamento significativo. La prima edizione cominciava da Popper, al quale veniva imputato l’aver fornito le basi teoriche per la ratio dell’homo œconomicus che è alla base di tutti i processi della valutazione, disegnando il percorso battuto dai teorici del “capitale umano”: un olismo per il quale può essere compresa con categorie di tipo economico ogni condotta che, semplicemente, “accetti la realtà”. Non si comprende la pervasività dei processi di valutazione se non li si colloca nell’orizzonte del neo-liberalismo, di quel “realismo capitalista”, per dirla con Mark Fisher, pervaso dall’ideologia del There Is No Alternative. Questa nuova edizione è invece introdotta da un nuovo, denso capitolo, “Caduta libera”, il cui titolo fa riferimento a un episodio della serie Black Mirror (3.01), nel quale l’intera vita quotidiana è sottoposta a valutazione quantitativa istantanea. Fantascienza, verrebbe da dire: se il sistema dei crediti sociali in Cina non evidenziasse la produzione di “vite a punti all’ombra del partito” e di prime forme di esclusione dei “poco virtuosi” che già ora subiscono limitazioni alla libertà di movimento (vedi gli articoli di Simone Pieranni ⇒ qui e ⇒ qui) : i presenti possibili tratteggiati da Black Mirror, come nota Pieranni [⇒ qui], sembrano superati dalla realtà.

Se questo è l’orizzonte complessivo, è allora necessario che la critica ai processi di valutazione non si arresti alle evidenti mancanze teoriche delle pretese valutative, che vanno comunque sottolineate – due per tutte: il fallimento della teoria del capitale umano applicato all’istruzione, che in mezzo secolo non è riuscita a calcolare il tasso di rendimento nel campo dell’istruzione, perché non è possibile misurare gli effetti esercitati sulla società nel suo complesso, in termini economici o di benessere (si veda Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, 2019 [⇒ qui]); e l’inconsistenza teorica dello pseudo-concetto di “competenze”. A questa critica puntuale è necessario uno sguardo complessivo che colga il disegno generale e aiuti a unire i puntini: come fa Pinto, servendosi degli strumenti della critica di Deleuze e Foucault alla società del controllo e ai processi di governance neoliberale; ma anche, recuperando quel rapporto sulla Crisi della democrazia di Crozier, Huntington e Watanuki del 1975 che, a oltre 4 decenni, si rivela «uno dei documenti fondativi della svolta» post-liberale. È significativo che quel documento individuasse come nemico principale una «classe intellettuale riluttante ai valori e alle gerarchie tradizionali, ai vincoli sociali che reggono la famiglia, l’azienda e la comunità». Appare chiaro, quindi, perché spezzare l’enclave di «un mondo dedicato alle cose della conoscenza – non più funzionale alle esigenze di immediata valorizzazione della conoscenza avanzate dal nuovo capitalismo e senz’altra forza apparente se non quella di un’esausta autoconservazione – è stato l’obbiettivo costante delle politiche della conoscenza europee».

Lo si vede bene con due paradigmatici esempi portati da Pinto. Il primo è «la pragmatica paraconcorsuale e concorsuale» nei concorsi universitari: «Aver agganciato la valutazione alle prove dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, per accedervi in qualità di commissari o di abilitandi, è stata, più ancora che una tattica vincente, una vera strategia vincente». Il secondo esempio di riuscita ingegneria sociale e antropologica è offerto dal candore con il quale il “Gruppo tecnico scientifico di Filosofia”, un pugno di esperti scelti dal Ministero, «espone in corpore vili (il loro) il risultato finale del riuscito esperimento di sostituzione dei value oriented intellectuals con i technocratic and policy oriented intellectuals». Passati indenni dalla “Buona Scuola” al ministero Bussetti – e anzi acquisendo alcuni residuali tecnocrati berlingueriani, in una significativa continuità –, questi «arruolati facilitatori» sono al momento impegnati nella stesura di un “Sillabo di Filosofia per competenze”, nel quale non è chiaro se sia peggio la scelta del termine “sillabo”, o l’indifferenza verso il pressoché totale rifiuto proveniente dal mondo della scuola in ogni sua articolazione. Nel loro procedere sulla retta via, questi tecnocrati «non lasciano che interrogativi sul valore e sul senso della filosofia li facciano deviare dalla loro azione pragmatica, ma danno per risolto il problema (problem solving): basta che gli si dica dall’esterno, dall’alto, che cosa è utile che la filosofia sia e faccia».

Come il libro di Pinto mette in luce, si tratta di comprendere che i processi di valutazione conseguono al passaggio dalla forma fabbrica alla forma impresa – cioè all’affermazione di un «artefatto in movimento che, trasformandosi continuamente, estende a poco a poco la sua razionalità all’intero spazio sociale fino a dominare ambiti apparentemente lontanissimi dalla sua sfera originaria, e diventare così la principale forza organizzatrice del nostro mondo» (la definizione è di Luca Paltrinieri). La forma impresa necessita di un’analitica del potere che si produce non per emanazione di un centro totalizzante, ma dal basso, «attraverso pratiche periferiche, procedure anonime, quando non acefale»: il che portava Foucault a mettere in guardia dalla ricerca di «uno stato maggiore che presiede alla razionalità del potere», di una casta che governa o di gruppi che controllano gli apparati dello Stato, e di indagare invece il «carattere implicito delle grandi strategie anonime, quasi mute, che coordinano tattiche loquaci, i cui “inventori” o responsabili sono spesso senza ipocrisia» (La volontà di sapere). Si tratta di prendere coscienza di come ogni singolo processo valutativo contribuisca a formare il disegno: e, come conclude Pinto citando Deleuze, «non è il caso né di avere paura né di sperare, bisogna cercare nuove armi».

una versione più breve di questa recensione è stata pubblicata sul manifesto del 31 maggio 2019

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