di SANDRO MEZZADRA
Relazione tenuta a ESC (Roma), il 9 maggio 2014, all’interno del ciclo di seminari “Sul concetto di uso. Prassi, istituzioni, comune” della LUM, Libera Università Metropolitana1.
1. “Il movimento del valore d’uso”. Così, in un articolo pubblicato sul primo numero di “Metropoli” (Prima pagano, meglio è), Franco Piperno definiva i comportamenti sociali che avevano violentemente acquisito visibilità e forza attorno al ’77: “queste nuove forme di vita che pretendono di usare tutta la ricchezza disponibile e intendono lavorare solo quando attività e bisogno coincidono”. Era il 1979, era passato da poco aprile, e Piperno scommetteva sulla continua moltiplicazione ed espansione di una “domanda selvaggia di una vita quotidiana degna di essere vissuta”, a un tempo esito e motore del lungo Sessantotto italiano. Si cercherebbe invano nell’articolo di Piperno una “teoria” del valore d’uso, ma il riferimento alla categoria è di per sé significativo. Anche al di fuori dell’Italia, negli anni Sessanta e Settanta, non erano mancati usi originali del concetto di valore d’uso (se mi si passa il bisticcio). Ne menziono soltanto uno, in qualche modo suggerito dal riferimento alla “vita quotidiana” da parte di Piperno. Henri Lefebvre costruì interamente la sua teoria dell’urbano attorno alla connessione tra uso, valore d’uso e “opera”, distinguendo quest’ultima dal “prodotto”, legato a doppio filo al valore di scambio. La storia dell’industrializzazione è, nella prospettiva di Lefevbre, storia dell’esplosione e della catastrofe dell’urbano, lacerato nella sua natura appunto di “opera” dalla generalizzazione dello scambio, dal divenire merce del suolo e dalla rottura dello specifico rapporto tra potere e collettività che aveva caratterizzato la città tradizionale. Erano semmai le lotte urbane, unificate dalla rivendicazione al “diritto alla città”, a ricollegarsi su basi completamente nuove alla città come “opera”: queste lotte e queste pratiche di appropriazione apparivano coerentemente a Lefebvre come un movimento del valore d’uso.
Non è questa la sede per soffermarsi sulla teoria dell’urbano di Lefebvre, per metterne in evidenza limiti e ricchezza. I suoi scritti, in ogni caso, hanno avuto un’ampia circolazione soprattutto in ambito anglosassone, contribuendo alla formazione di un paio di generazioni di geografi critici (il nome di David Harvey è ovviamente qui molto importante). E il diritto alla città ha conosciuto negli ultimi anni una straordinaria diffusione globale: le lotte che si richiamano a quello slogan sono uno dei terreni fondamentali al cui interno si può vedere la perdurante attualità politica del tema del valore d’uso. Negli anni Settanta italiani, in ogni caso, questo tema si è imposto anche per un’altra via, collegandosi più o meno direttamente a un dibattito molto intenso sulla questione dei “bisogni”. Chi come me si è formato sul finire di quegli anni ha un ricordo molto preciso dell’uso un po’ inflazionato che si faceva di questo termine nei linguaggi e nelle pratiche di movimento: i “nuovi bisogni proletari” venivano invocati praticamente in ogni volantino (ad esempio in uno dei primi che ricordo di aver scritto, per contestare la decisione del preside di anticipare di dieci minuti l’ingresso a scuola…); “pratica dei bisogni”, illegalità di massa e appropriazione erano termini che si richiamavano a vicenda (e non solo in termini retorici)… È decisamente singolare che in questo dibattito abbia giocato un ruolo significativo un libro – La teoria dei bisogni in Marx di Agnes Heller (Feltrinelli, 1977) – che nella prospettiva dell’autrice rappresentava in verità un momento di passaggio dal dissenso marxista all’interno della “Scuola di Budapest” a più confortevoli approdi liberali. L’analisi di Agnes Heller prendeva in ogni caso le mosse proprio dalla categoria di valore d’uso, per evidenziare la rilevanza costitutiva dei “bisogni” nella critica marxiana dell’economia politica (“la soddisfazione del bisogno è la conditio sine qua non per qualunque merce”, p. 23) e per evidenziare al contempo la mancanza in Marx di una vera definizione del concetto di bisogno. Nel loro insieme, tuttavia, “le categorie marxiane di bisogno non sono”, a giudizio di Heller, “categorie economiche” (p. 28).
Il libro di Agnes Heller era per molti versi suggestivo, in particolare nelle parti dedicate ai “bisogni radicali” (“momenti inerenti alla struttura capitalistica dei bisogni” il cui soddisfacimento non è tuttavia possibile nella formazione sociale capitalistica, p. 84). Si basava tuttavia, come mise puntualmente in evidenza Paolo Virno in un articolo anch’esso pubblicato sul primo numero di “Metropoli” (I sognatori di una vita riuscita), su presupposti etici e antropologici che tendevano a separare l’analisi dei bisogni dall’analisi del lavoro, prefigurando una sorta di “contro-economia” fondata in ultima istanza proprio sull’autonomia del valore d’uso. Proprio mentre il capitalismo stava operando una radicale ristrutturazione e una distensione sociale degli assetti produttivi, tra l’altro con la prima massiccia introduzione dell’informatica e dei “nuovi media”, questa posizione poteva legittimamente sembrare ingenua. In un testo del 1980 (La fine del valore d’uso, Feltrinelli), ricco di riferimento a questi sviluppi (era tra l’altro da poco stato presentato il famoso “Rapporto Nora-Minc”), Carlo Formenti riprendeva in particolare le teorie di Baudrillard per attuare una vera e propria resa dei conti con tutte le posizioni che in qualche modo – esplicitamente e implicitamente – avevano tentato di valorizzare l’autonomia del valore d’uso (e in verità sembrava allora che quella di Formenti fosse una presa di congedo definitiva da ogni ipotesi rivoluzionaria: la Cina era ancora lontana nel 1980, anche se Deng aveva già lanciato le sue riforme…). Il capitalismo contemporaneo, scriveva Formenti, “non si limita a raddoppiare la subordinazione formale del valore d’uso nella forma-merce, estendendola dalla sfera degli oggetti alla totalità dei rapporti sociali, ma opera una radicale riduzione del reale, degradandone tutti gli aspetti a fantasmi del valore. Il valore d’uso non ha più nemmeno la funzione di astratta legittimazione del segno di valore, vive solo come ‘simulazione’, allusione ad un referente materiale inesistente” (p. 59).
2. Era del resto sufficiente rivolgersi a Marx per comprendere le contraddizioni e le difficoltà di fronte a cui si trova ogni tentativo di affermare e di fondare teoricamente l’autonomia del valore d’uso all’interno del modo di produzione capitalistico. Limitiamoci alle prime pagine del primo libro del Capitale, al paragrafo intitolato “I due fattori della merce: valore d’uso e valore (sostanza di valore, grandezza di valore)”. Leggiamo qui: “la merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, per es. il fatto che essi provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia non cambia nulla. … L’utilità di una cosa ne fa un valore d’uso. … Il corpo della merce stesso, come il ferro, il grano, il diamante, ecc., è quindi un valore d’uso, ossia un bene. … Il valore d’uso si realizza soltanto nell’uso, ossia nel consumo. I valori d’uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la forma sociale di questa. Nella forma di società che noi dobbiamo considerare i valori d’uso costituiscono insieme i depositari materiali (die stofflichen Träger) del valore di scambio” (C, I, pp. 43 s.). Il seguito del primo capitolo del Capitale descrive sostanzialmente il movimento vorticoso attraverso cui il valore di scambio fagocita il valore d’uso e lo sottomette alla propria logica, livellando ogni “qualità sensibile” dei prodotti e riducendo il mondo delle merci alla “medesima spettrale oggettività” che risulta dal loro essere semplici concrezioni di lavoro umano indistinto, di lavoro astratto come misura del loro valore (appunto di scambio). Se v’è un’autonomia che qui si afferma tendenzialmente è certo quella del valore di scambio: “è proprio tale astrarre dai loro valori d’uso che caratterizza con evidenza il mondo delle merci. … Come valori d’uso le merci sono soprattutto di qualità differente, come valori di scambio possono essere soltanto di quantità differente, cioè non contengono nemmeno un atomo di valore d’uso” (p. 46). Nei Grundrisse, Marx definisce il valore d’uso della merce “una premessa oggettiva – la base materiale in relazione alla quale si manifesta un determinato rapporto economico”. All’interno del modo di produzione capitalistico, “sebbene siano immediatamente unificati nella merce, valore d’uso e valore di scambio altresì divergono immediatamente. Non solo il valore di scambio non si presenta determinato dal valore d’uso, ma anzi la merce diventa merce, si valorizza come valore di scambio, solo in quanto il suo possessore non si riferisce a essa come a un valore d’uso” (Gr., II, pp. 645 s.).
Riassumiamo: nella formazione sociale capitalistica il valore di scambio si afferma progressivamente nella sua autonomia, attraverso un movimento di appropriazione, scomposizione e ricodificazione dei valori d’uso. È un movimento che con una qualche precisione concettuale, utilizzando il lessico marxiano, possiamo definire di sussunzione. Ed è un movimento letteralmente illimitato, che investe tanto i prodotti del lavoro umano (a partire da una radicale riorganizzazione del lavoro stesso) quanto quei beni la cui “utilità per l’uomo non è ottenuta mediante il lavoro”. Marx dà un succinto elenco di questi ultimi concludendo il primo paragrafo del primo libro del Capitale: “aria, terreno vergine, praterie naturali, legna di boschi incolti, etc.” (C, I, p. 50). D’altro canto, aggiunge Marx, “una cosa può essere utile e può essere prodotto di lavoro umano senza essere merce. Chi soddisfa con la propria produzione il proprio bisogno, crea sì valore d’uso, ma non merce” (ivi). Siamo qui in presenza di due diverse modalità (indipendente dal lavoro umano e con esso collegata) con cui il valore d’uso si presenta al capitale, nella sua esistenza indipendente. È evidente che queste condizioni caratterizzano in particolare la cosiddetta accumulazione originaria: Marx si era occupato in gioventù di un esempio del primo tipo, in una serie di articoli del 1842 sulle leggi contro i furti di legna. E la storiografia più recente (da E.P. Thompson a P. Linebaugh) ha messo in evidenza la rilevanza non soltanto del valore d’uso, ma di un insieme di usi, sullo sfondo dell’accumulazione originaria. Il secondo tipo di valore d’uso indipendente dal capitale (quello prodotto dal lavoro umano “senza essere merce”) è del resto uno degli “ostacoli” fondamentali che il capitale si trova di fronte nel momento storico del suo sorgere. Marx lo ribadisce, ad esempio, a proposito delle colonie nell’ultimo capitolo del primo libro del Capitale: “quivi il regime capitalistico s’imbatte dappertutto nell’ostacolo costituito dal produttore che come proprietario delle proprie condizioni di lavoro arricchisce con il proprio lavoro se stesso e non il capitalista” (C, I, p. 939). La tendenza generale del capitale, scrive in ogni caso Marx nei Grundrisse, “è di subordinare anzitutto ogni momento della produzione stessa allo scambio, e di sopprimere la produzione di valori d’uso immediati che non rientrino nello scambio, ossia appunto di sostituire una produzione basata sul capitale ai modi di produzione precedenti e, dal suo punto di vista, primitivi” (Gr., II, p. 9).
In un testo che ho presentato proprio a ESC per la prima volta diversi anni fa, ho sostenuto che l’insieme dei processi descritti da Marx a proposito della cosiddetta accumulazione originaria, lungi dall’essere confinati alla sua “preistoria”, caratterizzano l’intero arco storico di sviluppo del capitalismo su scala mondiale, e in particolare i momenti di transizione al suo interno. Ribadendo questo punto, voglio sottolineare – dal punto di vista del tema che ci occupa oggi – la rilevanza di quella che definirei (in riferimento ai due tipi di valore d’uso di cui ho appena parlato) la “sussunzione formale del valore d’uso al valore di scambio”. La continuità di questo movimento di sussunzione e appropriazione definisce in termini molto generali il movimento del capitale, e sottolinearlo apre una prospettiva teorica molto diversa da quella seguita da quanti (da Polanyi ad Habermas, dallo stesso Teubner a molti filosofi “comunitaristi”) lo analizzano secondo criteri di legittimità, considerando lo “sconfinamento” del capitale in ambiti che dovrebbero essere al di fuori della sua giurisdizione come appunto “illegittimo”. Va fatto valere con forza il principio per cui lo sconfinamento è la norma, la ragion d’essere, del capitale, a cui “ogni limite (Grenze) si presenta come un ostacolo da superare” (Gr., II, p. 9). Si prenda ad esempio un libro piuttosto celebre, Sfere di giustizia di Michael Walzer (1984), che conteneva una discussione di “ciò che il denaro non può comprare”, di ciò che definiva blocked exchanges: servizi di sicurezza, istruzione primaria e secondaria, diritti di riproduzione, servizio militare, etc. L’impressione è di trovarsi di fronte a un catalogo di quelli che nei tre decenni successivi sarebbero divenuti settori strategici di investimento, valorizzazione e sviluppo capitalistico…
A quella che ho chiamato la sussunzione formale del valore d’uso al valore di scambio si può e si deve del resto affiancare la sua “sussunzione reale”, riferendosi con questa espressione ai casi in cui i bisogni e i corrispondenti valori d’uso sono creati dallo stesso sviluppo capitalistico, e portano dunque costitutivamente in sé le tracce del predominio del valore di scambio (ovvero emergono come tali proprio in quanto subordinati al valore di scambio). Un passo piuttosto noto dei Grundrisse sarà sufficiente a illustrare questo processo di decisiva importanza. In questione è qui proprio la sussunzione reale del lavoro al capitale, ovvero la produzione di plusvalore relativo: quest’ultima, scrive Marx, “esige la produzione di nuovi consumi. […] In primo luogo: un ampliamento quantitativo del consumo esistente; in secondo luogo: la creazione di nuovi bisogni mediante la propagazione di quelli esistenti in una sfera più ampia; in terzo luogo: la produzione di bisogni nuovi e la scoperta e la creazione di nuovi valori d’uso” (Gr., II, pp, 9 s.). Al pari del primo, questo movimento di sussunzione è profondamente conflittuale, segnato dall’antagonismo, come appare in particolare evidente dall’enfasi di Marx sul fatto che la lotta operaia per il salario si pone immediatamente sul “volume dei cosiddetti bisogni necessari”, prodotto della storia e dunque della lotta (C, I, p. 206). E tuttavia vale qui la pena di sottolineare, dall’interno dell’analisi marxiana, la capacità del capitale di “recuperare” questo carattere antagonistico dello sviluppo, di fare della “creazione di nuovi valori d’uso” (e non semplicemente dell’imposizione della logica del valore di scambio su una massa crescente di valori d’uso esistenti) uno dei motori essenziali del suo dinamismo.
È evidente che il capitalismo contemporaneo, se da una parte continua a estendere la sussunzione formale, ha dall’altra approfondito e intensificato in forme senza precedenti quella che ho chiamato la sussunzione reale del valore d’uso al valore di scambio. Una categoria che ha forse qualche utilità a questo proposito è quella che possiamo riprendere da uno dei contributi più interessanti (e meno noti in Italia) ai dibattiti marxisti sul valore d’uso – quella di Gebrauchswertversprechen, “promessa di valore d’uso”, proposta fin dal 1964 da Fritz Haug nei suoi lavori di critica dell’estetica della merce (cfr. Kritik der Warenästhetik, Suhrkamp, 1971). Non è qui il caso di ricostruire il contesto di questa critica, riconducibile da un lato agli sviluppi della Scuola di Francoforte (e in particolare della descrizione della distruzione del valore d’uso da parte di Adorno) dall’altra ai dibattiti critici sul consumismo. Lo stesso Marx, del resto, aveva sottolineato l’importanza della “merceologia” come “particolare disciplina d’insegnamento” a cui “i valori d’uso delle merci forniscono il materiale” (C, I, p. 44): attraverso la categoria di Gebrauchswertversprechen Haug estendeva questa osservazione non solo ai nuovi sviluppi di marketing e pubblicità, ma anche ai nuovi media e all’“industria culturale” nel suo complesso.
Quello che qui mi interessa riprendere della categoria proposta da Haug è la dimensione proiettiva e immaginaria, ovvero prefigurativa, della promessa di valore d’uso (che tende sempre più a staccarsi dal “corpo della merce”). Nell’età del capitalismo finanziario, questa dimensione è sempre più cruciale negli sviluppi di settori come le nuove tecnologie di informazione e comunicazione e il “biocapitale” in senso stretto, che vivono costitutivamente di “vision and hype” (per richiamare i termini utilizzati da Kaushik Sunder Rajan nel suo Biocapital. The Constitution of Postgenomic Life, Duke University Press, 2006). È questa una delle modalità fondamentali attraverso cui la scienza viene oggi messa a valore, entro un terreno discorsivo in cui la promessa di valori d’uso futuri costituisce il volano di giganteschi investimenti e di trasformazioni che investono – rideterminandoli secondo modalità in cui il valore di scambio riafferma continuamente il proprio primato – il significato stesso della vita e del reale. Ed è appena il caso di notare che “vision and hype”, al pari della dimensione promissoria, sono aspetti costitutivi dello stesso funzionamento dei mercati finanziari. Si pensi, per fare solo un paio di esempi, ai future, che spostano continuamente in avanti la promessa di valore delle merci; oppure ai “derivati”, che disarticolano le merci stesse e ne disperdono i disjecta membra “per impacchettarli con elementi di altre merci di interesse per un mercato orientato globalmente, su cui gli scambi avvengono secondo la logica del rischio” (R. Martin, “After Economy? Social Logics of the Derivatives”, in Social Text, 31 [2013], 1, p. 89). Anche qui il tempo viene ipotecato dalla logica del differimento indefinito, e dunque della proliferazione diffusiva del valore di scambio. A fronte di questa nuova, potentissima costituzione di realtà sulla base dell’astrazione del valore di scambio, una critica che assuma come proprio criterio essenziale la “concretezza” del valore d’uso appare decisamente inadeguata.
E tuttavia, per tornare ancora brevemente a Marx, si sbaglierebbe a derivare da quanto si è fin qui esposto che egli ritenesse sostanzialmente irrilevante il valore d’uso dal punto di vista della critica dell’economia politica. Non sono mancati economisti marxisti che lo abbiano sostenuto, ad esempio Rudolf Hilferding e Paul Sweezy, ma risultano del tutto convincenti le critiche che a queste posizioni sono state mosse, ad esempio da Henryk Grossman e da Roman Rosdolsky. In un testo tardo, ricco di suggestioni per il tema di cui stiamo discutendo, le Glosse marginali al Trattato di economia politica di Adolph Wagner (1879-1880), Marx afferma del resto esplicitamente che nella sua critica “il valore d’uso gioca un ruolo ben più importante che nell’economia tradizionale” (p. 1421). Rendere conto compiutamente di questo ruolo richiederebbe una considerazione del capitale dal punto di vista della sua riproduzione allargata e della differenza tra il valore d’uso delle merci destinate al consumo individuale e sociale e quello delle merci destinate al processo di produzione (macchine etc.). Richiederebbe anche un’analisi del valore d’uso di due merci assolutamente peculiari, nella misura in cui partecipano del mondo delle merci ma al tempo stesso ne definiscono le condizioni di possibilità: ovvero il denaro e la forza lavoro. Tornerò in conclusione su questo punto. Intanto va qui sottolineato che l’autonomia del valore di scambio, su cui molto ho insistito, è sempre soltanto relativa per Marx, nel senso che la merce non può esistere senza valore d’uso, senza indirizzarsi alla soddisfazione di specifici bisogni – non importa quanto naturali, costruiti, manipolati o “fantastici”. L’oggettività spettrale del valore di scambio e del lavoro astratto non libera in altri termini la merce dal problema del suo corpo. E dietro a questo problema si staglia quello di un’altra corporeità, la corporeità dei soggetti dal cui lavoro, dalla cui attività, dalla cui vita il capitale estrae valore. Di nuovo, non importa quanto sia prodotta, manipolata, “postumana”: questa corporeità e i bisogni che esprime restano essenziali punti d’aggancio per il rapporto sociale di capitale – e potenziali punti di resistenza e di lotta. Al culmine della sua potenza costitutiva, ontologica, il valore di scambio scopre dunque di non essere auto-sufficiente: questa è la lezione marxiana.
3. D’altro canto, dopo aver criticato la possibilità di una teoria dell’autonomia del valore d’uso, occorre pure dire che sul terreno del valore d’uso, a partire dal rifiuto della sua subordinazione al valore di scambio (ovvero dal rifiuto della subordinazione dei bisogni sociali alla valorizzazione del capitale) continuano a porsi lotte sociali essenziali. Che cosa significa infatti occupare una casa, per fare l’esempio più ovvio? Già ho ricordato la perdurante importanza del tema del “diritto alla città”. Ma vorrei ora dare qualche esempio dei modi in cui viene discussa, al di fuori dell’Europa e dell’Occidente, la diffusione di attività economiche non orientate alla valorizzazione del capitale, e semmai caratterizzate da una sorta di primato del valore d’uso. Sono questioni ben presenti anche alle nostre latitudini, dove assumono talvolta forme inquietanti (ad esempio per quel che riguarda il non profit) oppure astrattamente moralistiche (penso ad esempio alle retoriche della “decrescita”). Considerarle in una prospettiva non europea presenta il vantaggio di costringerci a fare i conti con esperienze che coinvolgono milioni di donne e uomini, nutrendo economie proletarie di sussistenza e pratiche di auto-organizzazione che spesso si intrecciano con lo sviluppo dei movimenti e delle lotte sociali.
Il ruolo delle donne all’interno di queste esperienze e di queste reti è assolutamente decisivo. E di grande importanza, guardando ai dibattiti teorici che attorno a esse si sono sviluppati, è il contributo del femminismo. Il punto di vista femminista sul tema del valore d’uso è del resto in generale cruciale: basti pensare a temi come la cura, le relazioni, la corporeità (ed è solo il caso di aggiungere che nel dibattito femminista la rivendicazione dell’irriducibilità di questi termini alla logica del valore di scambio va di pari passo con la critica dell’erogazione gratuita del lavoro di riproduzione). Si apre qui un vero e proprio nuovo continente rispetto a quello descritto da Marx: e al suo interno nuove dimensioni e figure del valore d’uso indubbiamente emergono, a cui oggi è solo possibile accennare. Due teoriche femministe non molto note in Italia, Julie Graham e Katherine Gibson (J.K. Gibson-Graham), hanno tentato fin dalla pubblicazione nel 1996 del loro primo libro, The End of Capitalism (As We Knew It) (University of Minnesota Press), di decentrare lo sguardo, sfidando le narrazioni (tanto mainstream quanto critiche) del trionfo del capitalismo dopo la fine della guerra fredda, e portando appunto alla luce la persistenza, e anzi la moltiplicazione e l’espansione di attività economiche non orientate al profitto. In una serie di lavori e progetti successivi, Gibson-Graham hanno cartografato il proliferare in molte parti del mondo di “economie di comunità”, centrate su “stock di beni comunitari che necessitano di essere mantenuti e continuamente riforniti”, secondo quella che definiscono una “pratica etica di gestione dei commons” in cui le donne sono appunto protagoniste (A Postcapitalist Politics, University of Minnesota Press, 2006, p. 97).
La definizione di “non-capitale” per questo insieme di pratiche economiche “comunitarie” (e occorre aggiungere che Gibson-Graham sono del tutto consapevoli della problematicità del riferimento comunitario, e si impegnano per proporre un concetto non esclusivo e “sostanziale” di comunità) può certo risultare problematica, e tornerò tra poco su questo punto. Ma occorre intanto valorizzare quantomeno il portato cartografico del lavoro di Gibson-Graham, a cui si può aggiungere – tra molti altri – quello dell’economista bengalese Kalyan Sanyal (Ripensare lo sviluppo capitalistico, La casa Usher, 2010), il quale ha appunto impiegato il concetto di “non-capitale” per descrivere le economie di sussistenza dei poveri espulsi dalle campagne e non assorbiti dal mercato del lavoro formale in India. Stiamo parlando di decine di milioni di donne e uomini, la cui riproduzione materiale dipende da una fitta rete di attività informali, da negoziazioni con agenzie e poteri eterogenei, da processi di auto-organizzazione e da circuiti di solidarietà spesso su basi familiari o “etniche” quando non religiose. Indubbiamente, nell’esperienza di questi uomini e di queste donne, nella politica oltre che nell’economia della povertà, il valore d’uso si presenta in forme non immediatamente (e soprattutto non classicamente) riconducibili al valore di scambio.
Si tratta di questioni che ci interrogano direttamente, a fronte della nuova scala su cui si pone anche a noi, dentro la crisi, la questione della povertà: si pensi soltanto ai dibattiti sul “mutualismo” che attraversano oggi il movimento in Italia. Sono convinto che vi siano lezioni importanti da apprendere studiando le esperienze non europee su questo terreno. In America Latina, ad esempio, lo sviluppo di quella che viene variamente chiamata economia sociale, economia solidale, economia popolare (e si potrebbe continuare a lungo con le definizioni, a cui corrispondono spesso diversi modelli teorici) è davvero impressionante e si esprime in esperienze molto diverse (tanto nelle campagne quanto nelle metropoli), che si sono spesso intrecciate con lo sviluppo delle lotte degli ultimi anni (basti pensare alle “imprese recuperate”). Anche qui stiamo parlando di un tessuto di attività produttive, cooperative e distributive che coinvolge decine di milioni di donne e uomini: giganteschi mercati informali, associazioni di produttori, reti di microcredito e baratto, progetti fondati sull’uso “comunitario” delle rimesse migratorie sono solo alcuni esempi della complessità e della ricchezza di questo tessuto. All’interno di un dibattito molto vivace su questi temi in diversi paesi latinoamericani, spesso caratterizzato da un uso creativo dei lavori di Polanyi, il riferimento al “valore d’uso” è ovviamente molto diffuso. José Luis Coraggio, ad esempio, ha scritto in un libro importante (Economía social y solidaria. El trabajo antes que el capital, Ediciones Abya-Yala, 2011): “questa economia è sociale perché produce società e non solo utilità economiche, perché genera valori d’uso per soddisfare bisogni dei medesimi produttori o delle loro comunità – generalmente su base etnica, sociale o culturale – e non è orientata dal profitto e dall’accumulazione senza limiti di capitale” (p. 45). Diverse proposte e sperimentazioni di riconoscimento formale di questa economia sociale e di sua articolazione all’interno di un’“economia mista” hanno caratterizzato i dibattiti e le politiche nei Paesi latinoamericani con governi “progressisti” negli ultimi anni.
4. Non è possibile sottovalutare, come ho già detto, l’importanza, la ricchezza, la profondità di queste esperienze. Qualche considerazione critica sul modo in cui vengono teoricamente interpretate è tuttavia necessaria. In questione è in particolare la categoria di “non capitale”, che si basa – ad esempio nella proposta di Sanyal – su una distinzione tra capitale e capitalismo che mi pare decisamente problematica. Paradossalmente, il rischio è di proporre un’interpretazione del capitale come “settore” dell’economia basato su quei rapporti salariali di sfruttamento contrattualizzati che proprio i dibattiti extra-europei degli ultimi decenni (e in particolare la critica post-coloniale) hanno messo efficacemente in discussione. A me pare semmai che il problema posto dall’insieme di esperienze che ho telegraficamente richiamato sia quello del modo in cui il capitale si rapporta con tessuti densi e complessi di cooperazione sociale ed economica che prendono forma attorno a bisogni che non trovano soddisfazione attraverso i circuiti mercantili capitalistici. Per sintetizzare al massimo, facendo un uso controllato del lessico di Deleuze e Guattari, penso si possa dire che questo rapporto si determina essenzialmente nei termini di una cattura del valore prodotto, e che decisivo sia il ruolo della finanza. Una ricerca molto importante di Verónica Gago sull’Argentina (dove tra il 2003 e il 2012, nella cosiddetta década ganada del “post-neoliberalismo” kirchnerista il credito ai consumi è cresciuto di 23 volte) mette in evidenza come le “economie popolari” siano oggi una nuova, essenziale frontiera della valorizzazione del capitale e dei processi di finanziarizzazione, aperta dalla combinazione di sussidi pubblici e credito ai consumi. Non si tratta qui di assumere una posizione moralistica né nei confronti dei consumi né nei confronti della finanza: si tratta però di mettere in evidenza come la “finanziarizzazione della vita e dell’economia popolare” introduca necessariamente – accanto alla logica del valore di scambio e alla “promessa del valore d’uso” – elementi di “corruzione”, di gerarchizzazione e di lacerazione dei tessuti di solidarietà, promuovendo lo sviluppo di quello che Gago chiama un “neoliberalismo dal basso” (cfr. Financialization of Popular Life and the Extractive Operations of Capital: A Perspective from Argentina, di prossima pubblicazione in “South Atlantic Quarterly”).
Se è vero, come dicevo in precedenza, che abbiamo molto da imparare dalle esperienze che al di fuori dell’Europa si richiamano al “valore d’uso”, è anche vero che questa stessa questione della “cattura” del valore ci interpella direttamente al di là di usurate divisioni tra centro e periferia del capitalismo globale. Siamo qui di fronte a un carattere essenziale di quello che, ancora con Deleuze e Guattari, possiamo chiamare l’“assiomatica del capitale” contemporaneo. In termini marxiani il problema che qui si pone è quello, discusso nel terzo libro del Capitale, del “capitale produttivo d’interesse”, nonché quello della sua autonomia, della tendenza all’autonomizzazione dell’interesse nei confronti del profitto (Sezione V, capitolo 22). Il denaro, come Marx ripete qui, è una merce sui generis da diversi punti di vista, tra cui rientra il fatto che in esso valore di scambio e valore d’uso tendenzialmente coincidono. Ma in questione è anche il fatto che il denaro “acquista, oltre al valore d’uso che esso possiede come denaro, un valore d’uso addizionale, cioè quello di operare come capitale” (C, III, p. 470). Questo valore d’uso consiste nel fatto di produrre profitto (e l’interesse è definito da Marx come la parte di questo profitto che il capitalista paga per il valore d’uso del denaro come capitale).
I processi contemporanei di finanziarizzazione fanno di questa figura del denaro al tempo stesso un dispositivo economico tendenzialmente egemone nella composizione del capitale e una struttura di comando politico, capace di subordinare alla valorizzazione corporeità e bisogni, sincronizzando violentemente tempi, spazi, forme di vita. Il denaro, del resto, è definito da Marx nei Grundrisse “potere sociale” (Gr., I, p. 97), e il valore d’uso del denaro come capitale consiste anche nel fatto di consentire l’accumulazione di potere sociale su scale inaudite. Ma ancora una volta, questa figura finanziarizzata del “denaro come capitale” non è un Moloch, non vive nell’iperuranio, deve necessariamente “toccare terra”: e in ogni momento in cui “tocca terra”, come nel caso della finanziarizzazione della vita e dell’economia popolare in discusso in precedenza a proposito dell’America Latina, si aprono concretamente possibilità di conflitto, di costruzione di rapporti di forza favorevoli, di contro-potere. Qui si presenta intera l’urgenza di ripensare questi problemi (di riformulare l’antagonismo) sul livello della moneta, immaginando in termini espansivi politiche che forzino la sua composizione, contrapponendo alla funzione di denaro come capitale un’altra funzione, che possiamo provvisoriamente chiamare di denaro come denaro, il cui valore d’uso non consista nella produzione di profitto e nell’accumulazione ma nella soddisfazione di bisogni che si tratta di misurare attraverso una nuova norma della cooperazione comune. Ho usato non a caso il verbo immaginare, per sottolineare la difficoltà di questo compito, a cui comunque – come sapete – altri compagni stanno lavorando. E’ in ogni caso un compito ineludibile a fronte dei processi contemporanei di finanziarizzazione del capitalismo.
5. Parlare di una nuova norma della cooperazione comune pone d’altro canto necessariamente il problema della soggettività capace di produrre, affermare e sostenere tale norma. E costringe evidentemente ad attraversare, dall’interno di un itinerario marxiano come quello qui proposto, il terreno del lavoro. Considerato sotto il profilo del valore d’uso, il lavoro si presenta in prima battuta in Marx come “lavoro concreto e particolare che si scinde in modi di lavoro infinitamente vari a seconda della forma e della materia”. Fondamentale è qui l’opposizione tra questo “lavoro concreto e particolare” e il “lavoro astratto”, indifferente a ogni determinatezza, “che crea valore di scambio” e “si attua nell’uguaglianza delle merci come equivalenti generali” (PCEP, p. 971): in una nota aggiunta alla quarta edizione del primo libro del Capitale, Engels utilizzò la distinzione tra work e labour per indicare i termini di questa opposizione (MEW, 23, pp. 61 s.), ripresi ad esempio da Agnes Heller con tonalità arendtiane (pp. 116 ss.). E’ un punto su cui non mi posso soffermare qui, se non per porre in evidenza (ancora una volta) la debolezza di una critica del capitalismo costruita sull’esaltazione del lavoro concreto contro il portato di “livellamento” del lavoro astratto. Aggiungo tuttavia, per far cenno a una questione che ho sviluppato in un libro di prossima pubblicazione (Nei cantieri marxiani, Manifestolibri), che il lavoro astratto, pura potenza sociale, reca nella sua stessa costituzione le tracce della forma merce, di una forma del lavoro ipotecata dal comando capitalistico. Non credo neppure, dunque, che sia possibile immaginare un suo semplice rovesciamento attraverso un movimento di soggettivazione antagonistica. Si tratterà piuttosto di aprire la ricerca sulla costruzione materiale di altri dispositivi di moltiplicazione della potenza sociale del lavoro: è in fondo, da una diversa angolazione, lo stesso problema che si è visto a proposito della moneta.
Per qualificare il terreno su cui questi problemi devono essere affrontati, conviene conclusivamente considerare da un altro e decisivo punto di vista il problema del rapporto tra valore d’uso e lavoro in Marx, ovvero dal punto di vista di quella merce assolutamente peculiare che è la forza lavoro. Siamo qui in presenza di una situazione rovesciata rispetto a quella che si è vista a proposito del denaro: se in quel caso valore d’uso e valore di scambio tendono a coincidere, nel caso della forza lavoro massima è la loro divaricazione. Nella prospettiva marxiana, l’interesse dell’operaio si focalizza interamente sul valore di scambio della sua merce (che punta a incrementare con la lotta sul salario), mentre l’interesse del capitalista è evidentemente catalizzato dal valore d’uso di quella stessa merce. Certo, è una situazione in fondo analoga a quella che si verifica in ogni rapporto di compravendita. Ma qui è complicata, intensificata e drammatizzata dalla natura biopolitica e potenziale della merce forza lavoro, messa ad esempio più volte in evidenza da Paolo Virno (e più di recente da Pierre Macherey). L’eccesso costitutivo della forza lavoro rispetto alla misura del suo stesso valore, quella che Marx chiama la “differenza di valore”, consiste infatti nella circostanza che il suo uso attiva un “lavoro vivente” fondamentalmente diverso da quello “trapassato” che, “latente nella forza lavoro”, ne determina il “valore di scambio” (C, I, p. 234).
“L’uso della forza lavoro”, scrive Marx, “è il lavoro stesso. Il compratore della forza lavoro la consuma facendo lavorare il suo venditore. Attraverso tale processo quest’ultimo diventa actu quello che prima era solo potentia, forza lavoro in azione, lavoratore” (C, I, p. 215). E’ un passo molto significativo dal nostro punto di vista. Nella prima e nella seconda frase Marx si riferisce a due forme molto diverse di uso e consumo della forza lavoro: nella prima il soggetto è il lavoratore, nella seconda il “compratore della forza lavoro”, il capitalista. Mi pare che sia qui formulato un ulteriore problema che caratterizza l’intero arco storico di sviluppo del modo di produzione capitalistico. Se usare la forza lavoro significa “usare la vita”, su questo uso incombe sempre, sia pure in forme storicamente mutevoli e caratterizzate da una maggiore o minore distanza fisica e temporale tra i due momenti (e andando ben oltre la modalità della compravendita della forza lavoro), l’ombra del padrone, di un potere “estraneo” e nemico. L’uso della vita altrui: ecco in due parole il problema, intrinsecamente politico, che ci consegna l’analisi marxiana del valore d’uso della forza lavoro. Ricostruire le molte forme in cui questo problema si riproduce nel presente, nel tempo del “capitale umano” e del neoliberalismo, secondo modalità che tendono a lacerare e dividere tanto la soggettività del singolo lavoratore o lavoratrice quanto il tessuto della cooperazione sociale, è l’indicazione che se ne può derivare, per il lavoro d’inchiesta come per quello teorico. E si può forse azzardare, certo forzando il testo marxiano, che i due significati dell’uso della forza lavoro che si sono individuati nell’ultimo passo citato possano indicare i termini di un rapporto antagonistico.
Il valore d’uso riemerge infine come terreno essenziale di lotta, non nella sua autonomia, ma nella sua eccedenza dall’interno del valore di scambio, investendo pienamente la produzione di soggettività. Qui, tuttavia, occorre scartare rispetto allo stesso Marx, rifiutando ogni simmetria e ogni specularità tra la “differenza di valore” a cui mira il capitalista acquistando la forza lavoro e la dismisura soggettiva su cui ricostruire una prospettiva rivoluzionaria. Questa differenza e questa dismisura vanno anch’esse apprezzate come costitutive di una produzione di soggettività che non si tratta semplicemente di rovesciare ma piuttosto di scoprire, conoscere e praticare come terreno di lotta. Per quanto molto diverse tra loro, tanto le esperienze di auto-organizzazione, mutualismo e solidarietà di cui ho parlato in precedenza quanto i profili filosofici e storico-giuridici ricostruiti nelle precedenti lezioni da Paolo Virno e Paolo Napoli, offrono non certo modelli compiuti ma indicazioni fondamentali per qualificare questo terreno.