Capitalismo estrattivo tra finanza, grandi opere e “malaffare”, a partire dal sistema Mo.S.E. in Veneto.

di BEPPE CACCIA.

 

“Capitale corrotta = nazione infetta” titolava nel dicembre 1955 l’allora battagliero settimanale L’Espresso a proposito degli scandali che gettavano luce sui meccanismi della speculazione immobiliare a Roma negli anni della ricostruzione e del boom economico. Da allora è passato più di un secolo, dal punto di vista delle trasformazioni produttive e sociali e dei mutamenti politico-istituzionali che le hanno accompagnate. Ma nelle ultime ore sta emergendo dalla scena romana, in tutta la sua orrida profondità, l’intreccio affaristico tra esponenti fascisti che arrivano dritti dalle più oscure vicende degli anni Settanta e Ottanta, criminalità organizzata di stampo mafioso e ceto partitico e amministrativo. L’operazione giudiziaria è stata ribattezzata “Mondo di mezzo”  prendendo spunto dall’espressione utilizzata, in una conversazione telefonica intercettata dagli inquirenti, dall’ex NAR Massimo Carminati, considerato il boss della Mafia Capitale, per descrivere il proprio ruolo all’interno di un sistema dove regna la corruzione: “Ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo … E allora vuol dire che ci sta un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano”. Euronomade è convinta che questo “mondo di mezzo” svolga una funzione cruciale nel capitalismo contemporaneo, che molto abbia da dirci a proposito delle forme contemporanee di accumulazione, e propone qui di indagarla in un primo contributo a partire da un altro specifico caso, quello che ha come sfondo Venezia e la sua laguna, e gli affari – meno sanguinosi, ma altrettanto sporchi – che ruotano intorno al progetto Mo.S.E.. (collettivo EuroNomade)

 

 

Due sentenze della Corte Suprema hanno contribuito negli ultimi anni a ridurre notevolmente il campo di applicazione penale del concetto di “corruzione” negli Stati Uniti. Si tratta di Citizen United vs. Fec del gennaio 2010 e della più recente McCutcheon vs. Fec del 2 aprile 2014. Come argomentato dal Giudice capo John Roberts in quest’ultimo pronunciamento: “Il diritto di partecipare alla democrazia attraverso contributi politici è protetto dal Primo Emendamento. Questo diritto non è assoluto. Il Congresso non può però porre limiti semplicemente per ridurre l’ammontare del denaro erogato alla politica, o per ridurre la partecipazione politica di alcuni al fine di accrescere l’influenza di altri. C’è solo un unico legittimo interesse governativo nella riduzione del finanziamento alle campagne elettorali. E questo sta nel prevenire la corruzione o l’apparire della corruzione” [in Lepore, 2014]. Ciò detto, il legislatore può però colpire un solo tipo di corruzione: “la corruzione del quid pro quo.” Se quindi non si dimostra, puntualmente, il nesso causale diretto e la correlazione fraudolenta tra specifico finanziamento e specifica decisione politico-amministrativa a favore dell’erogatore del contributo, il reato di corruzione non sussiste. Il gioco, in punta di diritto, è così presto fatto: queste due ultime sentenze, consolidando la giurisprudenza consuetudinaria in un processo in atto a partire dalla fine degli anni Settanta, hanno definitivamente tolto ogni limite ai finanziamenti, diretti o indiretti, destinati ai politici e alle loro macchine partitico-elettorali da parte di grandi e piccole corporation, in qualunque forma e con qualunque mezzo [Lessig, 2011; Rossi, 2014] .

È questo il riconoscimento formale di un vero e proprio processo di “costituzionalizzazione della corruzione” che dagli Stati Uniti d’America ha investito la struttura del diritto di gran parte dell’emisfero nord-occidentale del mondo globalizzato, consegnando un enorme potere di condizionamento della decisione politica alla forza economica dell’impresa capitalistica [Teachout, 2014].
In Italia questo processo può essere raccontato e indagato a partire da un caso paradigmatico, che origina alla metà degli anni Ottanta, attraversa indenne la stagione di Tangentopoli ed emerge nelle sue reali dimensioni a partire dalle inchieste giudiziarie degli ultimi due anni: il sistema legato alla realizzazione del progetto Mo.S.E. e alle attività del Consorzio Venezia Nuova (CVN), e la sua progressiva estensione alle “grandi opere” infrastrutturali nella regione del Veneto [Amadori, Andolfatto, Dianese, 2014].

Costituzionalizzazione della corruzione

Per la giustizia americana il diritto costituzionale alla libertà d’espressione motiva l’esercizio del diretto potere delle corporation sugli organi legislativi ed esecutivi. Così è stata – con un involontario effetto comico – la prevenzione del “rischio d’infiltrazioni mafiose negli appalti” a giustificare nel dibattito parlamentare italiano la scelta di creare la mostruosità giuridica del “concessionario unico” a conclusione di un lungo dibattito apertosi all’indomani dell’alluvione del novembre 1966. Con l’approvazione nel 1984 della seconda (e ultima) Legge Speciale per la salvaguardia di Venezia si riconosceva infatti il “preminente interesse nazionale” rappresentato dalla tutela della città e della sua Laguna. Ma nello stesso momento il legislatore decideva che gran parte delle risorse, all’uopo destinate dallo Stato, dovessero essere affidate a un unico concessionario, successivamente identificato nel Consorzio Venezia Nuova. La ripartizione istituzionale degli stanziamenti era ed è gestita dal cosiddetto Comitatone ovvero dal “Comitato interministeriale per la programmazione e il controllo degli interventi finalizzati alla salvaguardia fisica e socio-economica di Venezia”; mentre il CVN avrebbe dovuto essere formalmente diretto e controllato dalla struttura periferica del Ministero dei Lavori Pubblici (oggi Infrastrutture), cioè dal Magistrato alle Acque [Bettin, 1991].

mose1Con quel voto veniva in realtà consegnato – senza alcuna gara d’appalto – a un soggetto di diritto privato il monopolio di studi e ricerche, progettazione e realizzazione, manutenzione e gestione di tutte le opere per la salvaguardia. Il CVN è infatti un pool di imprese costituito ad hoc, inizialmente con una composizione mista che vedeva il protagonismo delle società delle allora partecipazioni statali (gruppo IRI) e di quelle legate al gruppo FIAT; poi, seguendo le cangianti geografie del potere imprenditoriale, risulta oggi composto dai soli privati colossi nazionali del cemento (Mazzi, Condotte, Fincosit, Astaldi e Cooperative Costruttori) guidati dalla padovana Mantovani SpA (famiglia Chiarotto), che ne ha acquisito il controllo a partire dal 2004.

In tal modo, l’atto di nascita legislativo del “concessionario unico” e la successiva convenzione, stipulata nel 1991 tra Magistrato alle Acque e Consorzio Venezia Nuova, sottraeva a qualsiasi trasparente procedura a evidenza pubblica l’affidamento di progetti e lavori, e strappava a qualsiasi reale verifica e controllo successivi un’enorme quantità di risorse pubbliche, destinate a Venezia dalla legislazione speciale ed erogate anno per anno dalle leggi Finanziarie e successivamente dalla Legge Obiettivo, risorse che risultavano nei fatti a esclusiva disposizione della struttura direttiva del solo Consorzio.

Si è valutato come, in un trentennio, sia stato di circa 9 miliardi di euro (di cui quasi 6 per il solo progetto delle dighe mobili alle bocche di porto) l’ammontare complessivo dei fondi gestiti dal CVN. E, ben prima che ci arrivasse la Magistratura, abbiamo provato a calcolare quanto di questo sia effettivamente stato speso per i cantieri delle opere, dal momento che al Consorzio è tuttora riconosciuto dallo Stato un 12 per cento di “spese generali di gestione” e che i lavori svolti sono pagati sulla base di uno speciale tabellario, mediamente più oneroso del 35 per cento rispetto ai prezzi di mercato del settore, stabilito dal Magistrato alle Acque di Venezia. Questa istituzione – i cui due ultimi presidenti Piva e Cuccioletta risulterebbero letteralmente “a libro paga” del CVN, avrebbero cioè ricevuto un regolare ma illegale “stipendio” annuo nell’ordine di centinaia di migliaia di euro da parte del Consorzio – meriterebbe un capitolo di approfondimento a parte: parliamo del braccio operativo in Laguna del ministero per le Infrastrutture, che avrebbe dovuto dirigere e controllare il CVN, ma ne risultava invece totalmente asservito. Secondo i nostri calcoli, dunque, circa la metà delle risorse destinate alla salvaguardia di Venezia sono state in realtà a disposizione del “sistema”, finalizzate con mezzi leciti e illeciti alla costruzione del consenso e alla velocizzazione delle procedure, per un’opera mai sottoposta a una seria valutazione ambientale e a un’effettiva comparazione con le possibili alternative.

È questo un altro aspetto cruciale nella scelta del “concessionario unico”. Fin dall’inizio di questa vicenda la definizione politica del monopolista ha coinciso con la scelta di specifici saperi tecnico-ingegneristici e di altrettanto particolari interessi realizzativi. Il punto di partenza è il ripetersi e l’aggravarsi, culminato nell’alluvione del novembre 1966, del fenomeno delle “acque alte”, cioè di flussi di marea, in entrata dal mare Adriatico, particolarmente sostenuti o addirittura eccezionali all’interno del bacino lagunare, con conseguente allagamento di parte dei percorsi pedonali e dei piani terra di abitazioni ed esercizi commerciali dei centri lagunari. La costituzione del CVN, e lo straordinario status giuridico assicurato al Consorzio, hanno significato a priori (date le caratteristiche delle imprese coinvolte) un’opzione a favore del progetto Mo.S.E., ovvero della soluzione più costosa e più impattante dal punto di vista ambientale con la chiusura temporanea delle bocche di porto, che separano mare e laguna, attraverso un complicato sistema di dighe mobili la cui costruzione ha irreversibilmente modificato con migliaia di tonnellate di cemento e acciaio l’intera morfologia degli accessi marittimi a Venezia. Mentre vi è chi ha cercato di distinguere il fenomeno, presentato come “deviante”, del “malaffare” dal giudizio sull’opera in via di realizzazione (i cantieri del cosiddetto Mo.S.E. sono arrivati oggi all’85 per cento circa di quanto previsto), è del tutto evidente come l’intero sistema corruttivo avesse quale principale obiettivo di garantire che tutte le procedure autorizzative di quello specifico progetto avanzassero il più speditamente possibile, evitando qualsiasi valutazione indipendente a monte ed eludendo qualsiasi controllo a valle, fossero essi di natura tecnico-scientifica e/o contabile. Tanto che ogni ipotesi alternativa al Mo.S.E., meno costosa e impattante, che pure prevedesse la chiusura delle bocche di porto, per non parlare di approcci di carattere più complessivo, orientati al recupero di un equilibrio idrodinamico e morfologico della Laguna e, più in generale, a un ripensamento ecosistemico della relazione tra attività antropiche ed elementi naturali, sono stati puntualmente accantonati, prima dal punto di vista comparativo, poi anche da quello delle risorse finanziarie messe a disposizione.

È il caso di tutte quelle attività di diffusa manutenzione, ordinaria e straordinaria, dei canali urbani e dell’ambiente lagunare – per non parlare poi degli interventi destinati, come pure la Legge Speciale per Venezia avrebbe previsto, alla rivitalizzazione socio-economica della città (dal restauro di immobili pubblici e privati a più generali politiche a favore della residenza, fino al sostegno necessario a micro-attività di imprenditorialità diffusa e artigiana) – su cui gli investimenti sono stati ridotti pressoché a zero a partire dagli anni (tra il 2003 con il governo Berlusconi e il 2006 con quello guidato da Romano Prodi) in cui la decisione dell’esecutivo nazionale di avviare e proseguire i lavori del Mo.S.E. diviene definitiva.

Le conseguenze di lungo periodo di tali scelte rischiano di essere drammatiche: il progetto Mo.S.E. è stato concepito alla metà degli anni Ottanta, allor quando le questioni del global warming (surriscaldamento globale), dei susseguenti climate changes (mutamenti climatici) e dell’innalzamento del livello medio dei mari erano ben lungi dall’essere poste, sia sul piano scientifico sia su quello politico. A fronte delle più recenti e autorevoli previsioni in materia [IPCC, 2014], appare chiaro come un’opera, il Mo.S.E., progettata e valutata dal punto di vista dell’investimento economico per durare oltre un secolo, divenga in realtà superata a breve termine e si riveli del tutto inadeguata a fronteggiare la crescita del livello medio dell’Alto Adriatico (che sta già comportando e sempre più comporterà un incremento nella frequenza e nella durata del fenomeno delle “acque alte”) e gli effetti che ciò produrrà sull’ecosistema lagunare e le forme di vita urbane al suo interno.

Più in generale, questa studiata distrazione d’ingentissime risorse finanziarie pubbliche da un loro possibile uso sociale e comune, per orientarle invece alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali, di nulla o marginale utilità (e, spesso, a elevato e devastante impatto ambientale) e, insieme, per alimentare la rendita posizionale di settori capitalistici obsolescenti, com’è quello hard delle costruzioni, ma capaci di esercitare un forte potere di condizionamento sulla rappresentanza politico-istituzionale e sulla rappresentazione mediatica mainstream, e il loro necessario corollario corruttivo, non è – si badi bene – un solo problema veneziano.

Questa vicenda è paradigmatica di quanto accaduto, dal dopo Tangentopoli in poi, intorno a tutti i più importanti progetti di infrastrutture. La norma istitutiva della “concessione unica dello Stato”, votata dal Parlamento nel 1984 per il CVN, è stata non a caso il modello su cui si è in seguito costruita la figura del “general contractor”, protagonista ad esempio nei cantieri dell’Alta Velocità ferroviaria, con un’oculata spartizione aziendale e partitica degli affidatari delle diverse tratte. Ed è questo, in linea di massima, l’utilizzo che negli ultimi anni si è fatto dello strumento del “project financing” divenuto, in un paradossale rovesciamento del suo senso originario, il percorso principe per la conversione del rischio d’impresa in un enorme onere per la finanza pubblica, retribuito così dalla fiscalità generale.

La figura del “concessionario unico” corrisponde pertanto a un modello estrattivo, affrancato da qualsiasi riferimento storico di tipo coloniale, svincolato da qualsiasi chiacchiera ideologica sulle “virtù del libero mercato” e pienamente adeguato ad alimentare i flussi finanziari contemporanei, in quanto originati da una rendita capitalistica parassitaria. In questo modello la corruzione non è un incidente di percorso, ma un pilastro portante. Non la patologia, ma la fisiologia di un modello.

Pervasività della corruzione

Sembrano rendersene conto, sconfortati, anche Barbieri-Giavazzi (sì, proprio lui, l’economista ultraliberista!) quando, dopo aver distinto tra “corruzione per infrazione delle regole” e “corruzione delle regole” [2014], concludono che nel caso del sistema Mo.S.E. – Consorzio Venezia Nuova quella che emerge è la seconda: “Alla radice dello spreco di denaro pubblico c’è infatti la corruzione delle regole, cioè quelle leggi che hanno concesso a un piccolo numero d’imprese il monopolio dei lavori.”

Sulla base del saggio di Shleifer-Vishny [1993], spiegano come per tenere alto il valore monetario della corruzione, i funzionari o i politici debbano colludere tra loro proprio come fa un cartello d’imprese che vuole tenere alto il prezzo dei propri prodotti. E quando i politici colludono, le imprese, per tenersi una parte della rendita, non possono presentarsi in ordine sparso, ma devono colludere anch’esse. Perciò, se a trattare sono due cartelli, quello dei politici (e/o dei burocrati) e quello degli imprenditori, la rendita sarà equamente divisa tra i politici e le imprese.

È stato questo anche il salto di qualità storico tra gli anni di Tangentopoli e il sistema Mo.S.E.. “Il Consorzio ha avuto il merito di sollevare i politici dal rapporto diretto con gli imprenditori” ha spiegato Piergiorgio Baita, il manager presidente della Mantovani S.p.A., deus ex machina del CVN insieme all’ing. Giovanni Mazzacurati. Un’unica impresa monopolistica, un capitalista collettivo capace di negoziare direttamente con la politica istituzionale, confrontandosi con ogni partito come se fosse una singola gang di un unico sistema criminale, eliminando la possibilità che i singoli politici trattassero in proprio un “eccessivo” lucro personale con le singole imprese. Non è casuale che la convenzione tra il CVN e lo Stato sia stata siglata nel 1991 alla vigilia dell’entrata in vigore delle più rigide normative europee in materia di appalti pubblici.

Il problema penale che si era manifestato con l’esito di Tangentopoli viene così affrontato alla radice. Con la concessione unica “tutto diventa legittimo perché le leggi sono scritte in modo tale che appropriarsi di una parte della rendita destinata alla realizzazione della grande opera diventi legale. Sono anche scritte per massimizzare la rendita nell’interesse sia dei politici sia delle imprese che se la divideranno”.

mose3Ma non è questa l’unica novità, se vogliamo assumere la stagione di Tangentopoli come termine storico comparativo, del dispositivo della rendita estrattiva per mezzo di corruzione, che trova nel sistema Mo.S.E. il suo caso paradigmatico. Ciò che le stesse inchieste giudiziarie degli ultimi due anni sono costrette, con sgomento, a registrare è il grado di penetrazione e pervasività raggiunto dal sistema corruttivo. Non siamo di fronte al semplice scambio reciproco tra ceto partitico e imprese, ma si è rivelato decisivo per il CVN assumere progressivamente il pieno controllo di tutta la filiera tecnico-burocratica interessata alle procedure autorizzative e all’eventuale controllo successivo alla realizzazione delle opere. La cooptazione degli organi di sorveglianza (dal già citato Magistrato alle Acque alla commissione regionale per la Valutazione d’Impatto Ambientale), degli organi repressivi (Polizia di stato, Carabinieri, Guardia di Finanza fino ai servizi d’informazione) e degli stessi organi della giustizia amministrativa e contabile (Tar e Corte dei Conti) mostra che “oggi la pratica della corruzione (non riferita allo specifico reato ma intesa in senso lato) – come sostengono Belloni-Vesco [2014] – permea in modo più strutturale e pericoloso la pubblica amministrazione”.

A ulteriore riprova di ciò sarebbe sufficiente approfondire il tema relativo ai collaudi: le Commissioni di Collaudo sono infatti quegli organismi terzi che, sulla base del riconoscimento di lauti compensi calcolati percentualmente sull’importo delle opere sottoposte a verifica, vengono chiamati a pronunciarsi sull’efficienza delle diverse parti del sistema Mo.S.E. e, in particolare, sulla congruità delle opere stesse in rapporto ai considerevoli stanziamenti finanziari dello Stato. Ma i membri di tali organismi sono stati nominati da quel Magistrato alle Acque direttamente controllato dal CVN e, tra i collaudatori membri le Commissioni, si trovano – in condizione di evidente conflitto d’interessi – figure apicali delle amministrazioni centrali dello Stato, spesso gli stessi che erano chiamati ad assicurare la continuità dei flussi di cassa allo stesso concessionario unico, o comunque figure che condividono specifiche responsabilità in altri progetti infrastrutturali dove sono protagoniste le stesse imprese del Consorzio. Tanto per comprendere le dimensioni del problema, da precedenti rilievi della Corte dei Conti e dal bilancio stesso del CVN, si evince che solo tra il 2004 e il 2008 i membri delle Commissioni di Collaudo avevano incassato compensi personali per oltre 23 milioni di euro. E molti di questi incarichi hanno riguardato figure con ruoli cruciali nei ministeri dell’Economia e delle Infrastrutture, oltre che presso l’Anas.

È questo frutto conseguente del processo di crisi e trasformazione delle forme tradizionali di sovranità politica (nella sua ultima incarnazione del “sistema dei partiti” investito dalla bufera Tangentopoli nei primi anni Novanta) verso le contemporanee forme, più articolate, flessibili e porose, di governance. Qui il ridimensionamento dell’autorevolezza e del potere effettivo esercitato dalle macchine di partito ha effettivamente contribuito, a ogni livello, a un parallelo rafforzamento dei dispositivi tecnocratici e burocratici, inducendo i cosiddetti “tecnici” delle pubbliche amministrazioni ad assumere un ruolo di attivo protagonismo nel rapporto diretto con le imprese. Anche qui l’intreccio d’incarichi, la mobilità delle figure di funzionari e professionisti dalla collocazione interscambiabile a cavallo tra istituzioni pubbliche, consulenza tecnico-scientifica e management nell’impresa privata hanno generato un sistema di reciproche convenienze, in cui conflitto d’interessi e incompatibilità formali e sostanziali sono divenuti progressivamente la norma.

Il tutto ha reso sicuramente più complesso il gioco relazionale tra tecnica, politica e impresa, ma ha al tempo stesso consolidato l’adesione, materiale e ideale, di tutti gli attori (burocrati e professionisti, politici e imprenditori) integrati nel sistema, a un’unica oligarchia appropriativa, all’interno della quale regolare, in termini di scambio sempre vantaggioso per i suoi membri, le concrete scelte di politica territoriale e infrastrutturale. È quanto emerge anche da alcuni degli interrogatori e dalle interviste di diversi personaggi coinvolti, che sembrano ripetere un unico copione: “Siamo immersi in un sistema di corruttela troppo strutturato, troppo consolidato … Ovunque funziona così. … Eravamo convinti che quello fosse l’unico sistema possibile, che non si potesse fare diversamente.” E, fino a quando il coinvolgimento nell’inchiesta giudiziaria non implica il forzoso ritiro dalla scena, predomina un radicato senso di condivisa appartenenza a queste élite del potere e della ricchezza e un’altrettanto solida presunzione d’impunità.

Corruzione e processi di ricentralizzazione istituzionale

Interi apparati pubblici sono stati così asserviti alla conduzione “illegale” dei lavori del Mo.S.E.. Nel caso veneziano il meccanismo top down ha sicuramente coinvolto strutture centrali e periferiche dei ministeri interessati e la stessa Regione Veneto, mentre – al di là dell’incriminazione del sindaco uscente per “contributi illeciti” ricevuti in occasione della sua campagna elettorale, che confermerebbero una certa diffusa abitudine a utilizzare il CVN come canale di finanziamento occulto per quasi tutta la politica locale e nazionale (risulterebbero infatti storicamente esclusi solo Verdi, Sel e Rifondazione) – non vi è un solo atto politico-amministrativo del Comune di Venezia che sia entrato nell’indagine giudiziaria. Certo, quello dell’amministrazione comunale è l’unico livello istituzionale che, fin dall’inizio di questa vicenda, si sia in ogni possibile occasione pronunciato contro il progetto Mo.S.E. e che abbia fin dall’inizio contestato il sistema della “concessione unica”.

Ma vi è qualcosa di più strutturale a spiegazione di questo dato di fatto. Pure sotto questo profilo il caso CVN dichiara il suo carattere paradigmatico e, per certi versi, anticipatorio. Il ricorso alla concessione unica ha significato, oltre a quanto già scritto, l’avvio di un processo di sistematica sottrazione delle scelte in materia di salvaguardia alla sovranità della comunità locale e delle sue istituzioni democraticamente elette. Di fatto il Consorzio ha, da sempre, dedicato i suoi sforzi corruttivi più all’esautoramento delle istituzioni comunali che al loro condizionamento. Funzionando, nella situazione veneziana, da prototipo per l’affermarsi di altri poteri non elettivi, tanto forti quanto opachi, e sottratti a qualsiasi verifica democratica, fosse pure rappresentativa. “Califfati” li ha recentemente definiti Gianfranco Bettin, facendo riferimento al ruolo svolto – oltre che dal CVN – dall’Autorità Portuale, decisiva sulla questione del transito delle “grandi navi” in laguna così come sul governo di aree industriali e urbane di significativa importanza a Marghera e nella Città storica; e da SAVE S.p.A. concessionaria dello Stato per la gestione dell’aeroporto di Tessera, infrastruttura strategica per l’intero Nordest privatizzata di fatto nel 2001 con una clamorosa operazione condotta dall’allora governatore Galan. Attori entrambi decisivi per la definizione del rapporto tra politica del territorio e speculazione finanziaria. Del resto, è stato proprio su quest’articolazione di poteri che si è costruito per oltre un ventennio il dominio di Forza Italia e Lega, con lo stesso Galan prima e Zaia poi, sulle istituzioni regionali venete.

Allo stesso modo, la concessione unica al Consorzio ha anticipato nel tempo i meccanismi decisionali propri della Legge Obiettivo, forse uno dei lasciti normativi più duraturi dei governi Berlusconi, non casualmente ripresi e riproposti dal recente decreto cosiddetto “Sblocca-Italia”. Anche qui la fluidificazione delle modalità di finanziamento pubblico così come la semplificazione delle procedure di valutazione ambientale e di assegnazione degli appalti realizzativi per le grandi opere infrastrutturali ha comportato lo scavalcamento dei pareri (spesso negativi, anche perché maggiormente influenzabili dal punto di vista delle popolazioni coinvolte e condizionabili dai rapporti di forza espressi da conflitti sociali e movimenti radicati nel territorio) espressi dagli enti locali interessati.

Vi è quindi un nesso strettissimo che concatena costituzionalizzazione e pervasività sistemica della corruzione, affermazione di un modello estrattivo che trova in essa un dispositivo portante, e i processi istituzionali che hanno investito la relazione centro-periferia negli ultimi anni. È proprio su questi, caratterizzati dalla gestione capitalistica della crisi su scala europea, che andrebbe focalizzata l’attenzione. Perché si rischia di comprendere poco delle trasformazioni strutturali in atto se ci si arresta alla semplice registrazione delle politiche continentali di taglio della spesa pubblica e, nello specifico, di drastica riduzione dei trasferimenti statali alle amministrazioni locali.

Così come se ci si ferma all’elementare constatazione dei pesantissimi effetti sociali che ciò ha comportato per i sistemi municipali di welfare (che, nel contesto italiano, in assenza di un’offerta universalistica ed escludendo la spesa previdenziale e quella sanitaria in carico alle Regioni, valgono oltre il 70 per cento dei servizi e interventi sociali) e, più complessivamente, per le dinamiche ridistributive che investimenti diffusi sulla qualità urbana e i servizi alla cittadinanza consentono di attivare. In realtà la rigida traslazione dei criteri fondanti il Patto di stabilità finanziaria (e successivamente Fiscal Compact, Two Packs e Six Packs) dalla scala europea a quella nazionale, con il costo della loro applicazione che, nel caso dell’Italia da parte di tutti i diversi governi nazionali succedutisi, è stato fatto ricadere per l’80 per cento sulla finanza pubblica locale, ha determinato un profondo processo di ricentralizzazione e riverticalizzazione dei poteri territoriali.

Pare anzi che la posta in gioco nella perversa applicazione del Patto di stabilità sia stata proprio il ridimensionamento degli spazi di effettiva autodeterminazione e autogoverno per i livelli istituzionali espressione delle comunità locali, correttamente interpretati come un potenziale punto di contraddizione per la governance europea della crisi. La combinazione di dispositivi normativi verticali nell’imposizione dei grandi progetti infrastrutturali con la stretta determinata sulle finanze municipali dalle politiche d’austerity ha così prodotto la vera e propria metamorfosi delle “autonomie locali” in funzioni puramente esecutive di scelte compiute altrove, anch’esse da ricondurre alla predominante logica estrattiva.

Nel caso veneziano poi l’esplosione dello scandalo Mo.S.E. conduce a esiti paradossali. Le conseguenze politiche dell’arresto del sindaco Orsoni hanno portato nel giugno scorso allo scioglimento del Consiglio Comunale. L’unico livello istituzionale non implicato nel sistema corruttivo si è così ritrovato commissariato, cioè con tutte le competenze degli organi elettivi (sindaco, Giunta e Consiglio stesso) riportate nelle mani di un commissario (prefetto di carriera proveniente dal Ministero dell’Interno) nominato dal governo nazionale. Mentre, nonostante le inchieste giudiziarie, il CVN è ancora lì a gestire, grazie al regime della concessione unica, la conclusione dei cantieri del Mo.S.E.. Anzi, dopo il commissariamento del Comune, sono proprio i poteri forti protagonisti del sistema legato a vario titolo al CVN a svolgere un prepotente ruolo-guida nelle più rilevanti decisioni politiche sul territorio veneziano. L’ha dimostrato la scelta del Comitatone di dare il via libera nell’agosto scorso alla procedura di valutazione per lo scavo del canale Contorta, presentato come falsa soluzione al problema del transito delle “grandi navi” e in realtà foriero di ulteriori pericoli per l’equilibrio idrodinamico dell’ecosistema lagunare. O l’accelerazione dell’iter per l’approvazione del nuovo masterplan dell’Aeroporto “Marco Polo” con l’ipotesi di realizzazione di un’insostenibile nuova pista e il corollario speculativo di strutture terziarie e commerciali.

Contemporaneamente, il governo assicurava assoluta continuità nel finanziamento al Consorzio dei cantieri del Mo.S.E., garantendo in sede CIPE (il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) il saldo delle ultime tranche di risorse destinate alle dighe mobili per un totale di oltre 1 miliardo e 250 milioni di euro. Ne sarebbero bastati 75 di milioni per evitare i pesanti tagli di spesa al bilancio comunale per il 2014 – che hanno colpito in particolare i servizi sociali ed educativi, dai minori ad anziani e disabili, fino ai progetti più innovativi; e, insieme a essi, il salario di lavoratrici e lavoratori del Comune che quei servizi sono impegnati a garantire – e, nonostante questi, il rischio di sforamento del Patto di stabilità per il 2015 con l’applicazione di nuove pesanti sanzioni alle finanze municipali.

Da questo punto di vista la gestione straordinaria del commissario governativo dichiara un suo mirato obiettivo: “normalizzare Venezia”, negarne la specialità, ridimensionare il ruolo delle istituzioni comunali nel governo del territorio, e cancellare quei tratti di anomalia che hanno caratterizzato negli ultimi due decenni le sperimentazioni municipaliste qui tentate e, con alterne fortune, sviluppate.

Ecco l’esito paradossale delle inchieste che hanno lambito il sistema della corruzione: il commissariamento del Comune di Venezia, e le concrete politiche che sta attuando in un significativo laboratorio locale, ricordano da vicino le procedure applicate con ferocia dagli inviati della Troika europea ad Atene e il contenuto dei loro Memoranda. Dimostrando come, nella crisi, la “dittatura commissaria” rappresenti pur sempre un modello ideale di possibile governamentalità, una risorsa di utile attivazione anche dal punto di vista estrattivo.

Mentre, sul versante del sistema Mo.S.E., le misure finora adottate dall’Autorità Anticorruzione paiono rispondere più a una logica di “rottamazione” / ristrutturazione di equilibri di potere oggi superati, che di smantellamento dei suoi meccanismi fondanti. Se infatti non si mette mano alle norme che hanno non solo consentito, ma direttamente generato un sistema di generalizzata e strutturale corruzione, potrebbero davvero aver ragione quei poteri che immaginano, sacrificate le figure più squalificate, di poter continuare con il business as usual.

A riprova di come a nulla serva l’ululato giustizialista e manettaro: anzi di come la richiesta di “punizioni esemplari” per quanti sono stati sorpresi con le mani nel sacco possa in ultima analisi legittimare la corruzione come dispositivo strutturale. E di come non sia sufficiente – per i pochi che possono permetterselo – ripetere “noi l’avevamo detto”, se non si articolano immediatamente quegli interventi normativi che potrebbero smontare pezzo per pezzo questo stesso sistema. A Venezia e in Veneto, e ovunque si riproduca.

mose2A partire dall’abrogazione di quella Legge Obiettivo che consente di “semplificare” (cioè di rendere irrilevanti) le procedure di Valutazione d’impatto ambientale e di scavalcare (cioè di calpestare) i pareri contrari delle comunità locali investite dalle grandi opere infrastrutturali. E, nel nostro paradigmatico specifico, la costituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta che ricostruisca come il CVN e le imprese a esso collegate hanno speso i soldi pubblici dal 1984 a oggi, facendo luce così su quell’insieme di complicità oggi coperte dalla prescrizione giudiziaria. L’avvio di una radicale riforma della legislazione speciale per Venezia, che riconosca un ruolo preminente delle istituzioni locali nel governo dell’ecosistema lagunare e dell’area metropolitana che gli gravita attorno. In questo quadro, il superamento del regime della “concessione unica” con lo scioglimento del Consorzio, affidando a un’Authority indipendente il controllo sui cantieri attualmente aperti, superando l’attuale struttura del Magistrato alle Acque e restituendo alla comunità locale piena sovranità sulle sue acque. Si potrebbe attuare così una verifica, altrettanto libera e autorevole sul progetto Mo.S.E. in corso di realizzazione, per comprendere come si possa correggere e riconvertire un’opera inutile e devastante, sospinta – come oggi risulta evidente – solo dalla corruzione. E riuscire infine a recuperare quelle risorse sottratte alla collettività, che, riappropriate alla dimensione comune, potrebbero essere invece investite nella rivitalizzazione economica e sociale di Venezia e del suo unico ambiente,

Se non si sradica l’albero, la retorica delle “mele marce” servirà solo a coprire la continuità di sistema. Impedirlo è compito dei movimenti che si battono contro le grandi opere e per i commons, e di chi, agendo nelle istituzioni, voglia provarci sul serio.

Finanziarizzazione della corruzione e produzione comune di “nuovi ordini”

Vi è un ultimo aspetto, decisivo per confermare tutti gli aspetti finora delineati, a partire dal carattere strutturale del fenomeno corruttivo: del sistema Mo.S.E. ha ampiamente beneficiato l’intero mondo finanziario italiano e non solo.

Innanzitutto, dal momento che la tempistica di erogazione delle risorse statali per il progetto delle dighe mobili non è mai stata tale da consentire la regolare prosecuzione dei cantieri, dal 1992 la legge ha autorizzato il concessionario ad accendere mutui con le banche, i cui oneri di ammortamento per capitale e interessi restavano però a esclusivo carico dello Stato. In un primo momento il CVN è stato addirittura lasciato libero di scegliere gli istituti di credito a trattativa privata, e solo in un secondo momento si è stabilito che l’individuazione della banca dovesse avvenire tramite gara. Esaminando quanto avvenuto tra il 1995 e il 2008 la Corte dei Conti osserva come al Consorzio fosse arrivata, per i primi due finanziamenti esaminati, una sola offerta da parte di un cartello costituito da Dexia (Banche Popolari), Banca Opi (gruppo Intesa San Paolo), Monte dei Paschi di Siena e Depfa Bank (gruppo tedesco Hypo Real Estate). Ma la cosa ancora più interessante da segnalare è che, in entrambi i contratti stipulati tra banche e CVN, non era esattamente quantificato l’ammontare dell’onere complessivo a carico dello Stato. “In buona sostanza è chiaro quanti soldi le banche danno al Consorzio, ma non quanto lo Stato dovrà pagare d’interessi” chiosano Barbieri-Giavazzi [2014]. E siccome, sulla base dei criteri che abbiamo qui sopra ricordato, il costo complessivo delle opere non scende nel tempo, saranno alla fine ancora i contribuenti a saldare, con un prelievo dalla fiscalità generale, il conto salato presentato del sistema creditizio, a beneficio proprio e del CVN.

A partire dal 2011 si compie inoltre il salto di definitiva internazionalizzazione nell’accesso al credito da parte del Consorzio, il quale – sempre con la copertura della garanzia in ultima istanza fornita dal finanziamento statale al progetto Mo.S.E. in via di realizzazione – ottiene prestiti per oltre 1 miliardo e 500 milioni di euro complessivi da parte della Banca Europea degli Investimenti (EIB – BEI), la struttura dell’Unione riconosciuta dal trattato di Maastricht e il cui capitale sociale è costituito dai versamenti dei Paesi membri. Prestiti che la BEI, nonostante le inchieste giudiziarie a carico del Consorzio e l’obbligo statutario a intervenire in caso di malversazioni connesse ai sovvenzionamenti erogati, non ha mai ritenuto di mettere in discussione.

Non solo: alla maggior parte degli osservatori pare essere sfuggita la rilevanza di tre degli arresti compiuti nel quadro dell’inchiesta Mo.S.E. – CVN. Proprio quelli che hanno riguardato figure di spicco della finanza veneta: i commercialisti Francesco Giordano (fiduciario di Mazzacurati, ma anche revisore dei conti di Acegas-Aps e curatore della fusione fra Interporto e Magazzini Generali di Padova) e Paolo Venuti (professionista al servizio di Galan, che condivide lo studio con Guido Penso, revisore della Camera di commercio di Padova), e soprattutto Roberto Meneguzzo, fondatore e amministratore delegato di quella che è stata definita “la Mediobanca del Nordest”, ovvero di quella potente Palladio Finanziaria che rappresenta il veicolo degli investimenti delle medio-grandi imprese del territorio ed è, allo stesso tempo, partecipata da Intesa San Paolo, Banche Popolari, Veneto Banca e MPS, ovvero buona parte degli istituti erogatori dei mutui per il Mo.S.E..

La stessa Palladio Finanziaria che, nel 2007, è entrata nel capitale di controllo della società di gestione del risparmio EstCapital, un’altra cassaforte del Veneto, a sua volta soggetto centrale per l’operazione di speculazione immobiliare e finanziaria che avrebbe dovuto essere garantita, tra il 2008 e il 2013, dal commissariamento governativo dell’intera isola del Lido di Venezia, con il supposto obiettivo della realizzazione del nuovo Palazzo del cinema e dei congressi. Qui (anche se molto si potrebbe aggiungere dal punto di vista degli intrecci ulteriori con la vicenda di Expo 2015 a Milano) il cerchio sembra chiudersi.

Ma poco ci interessa la puntuale ricostruzione degli intrecci di società e persone (altri, come Canetta-Milanesi [2014], ci stanno con maggiore profondità lavorando), quanto riscontrare un altro elemento di novità rispetto agli antecedenti storici: il profondo rapporto funzionale che gli attuali sistemi corruttivi intrattengono con i circuiti finanziari, a ogni livello.

Sarebbe forse meglio dire che le forme contemporanee della corruzione non funzionano se non direttamente implicate nel dominio della “produzione di denaro a mezzo di denaro”. Il salto, compiutamente avvenuto, verso la finanziarizzazione della corruzione costituisce la conferma del ruolo cruciale che essa viene ad assumere nella regolazione – ripetiamo: fisiologica e non patologica – dei rapporti tra politica, tecno-burocrazia e impresa al tempo del comando dei flussi finanziari sull’economia-mondo, e ribadisce la funzione portante che essa svolge nel modello capitalistico estrattivo-parassitario oggi dominante. Spiega, infine, perché essa sia una delle forme in cui oggi si manifesta la “banalità del male”: perché ai suoi attori, a vario titolo appartenenti alle oligarchie locali e globali del potere e della ricchezza, essa appaia il più normale tra i veicoli dello scambio tra decisione politica e accumulazione di capitale.

machiavelliMa è proprio quando è questa banalità ad ammorbare l’aria che respiriamo, quando è la “fortuna” a piegare la “virtù”, quando sono congiure senza contenuto costituente a occupare il palcoscenico e la tirannide della corruzione a dominare, che il “ritorno a’ principi” costituisce risorsa certa e indispensabile. Per Machiavelli la corruzione, in un’analisi priva di qualsiasi moralismo, dev’essere sempre intesa in senso densamente politico: vi è corruzione quando le forme della politica non corrispondono più al vivere civile, quando le vecchie istituzioni non sono più adeguate alle effettive dinamiche sociali.

E dove massima è la corruzione, là non vi è più “punto vivere libero” [Discorsi, L. I, cap. 16]. Anche perché “tenendo fermi gli ordini dello stato, che nella corruzione non erano più buoni, quelle legge, che si rinnovavano, non bastavano a mantenere gli uomini buoni”. Era pertanto necessario, conclude con riferimento alla repubblica romana, “a volere che si mantenesse libera che, così come aveva nel processo del vivere suo fatto nuove leggi, l’avesse fatto nuovi ordini” [ivi, cap.18].

L’accumulazione estrattiva a mezzo di corruzione e la sua integrazione nei circuiti della finanza globale ci appaiono, non a torto, oggi come una delle forme più intollerabili di appropriazione della ricchezza prodotta da una comune produttività sociale, senza precedenti nella storia dell’umanità. La rendita che ne deriva a vantaggio dell’arricchimento di una ristretta oligarchia alimenta la smisurata diseguaglianza di cui si nutre il modello capitalistico dominante, ai danni di una moltitudine di produttori cooperanti impoveriti dalla propria stessa attività. Ed è nell’ordinario funzionamento, come abbiamo visto, dei dispositivi normativi e istituzionali che la corruzione si fa sistema.

È tempo dunque che la virtù dei molti rovesci la fortuna dei pochi e che la produzione comune esprima un progetto e una forza in grado di fondare “nuovi ordini”. Se c’è uno spazio per la passione politica, oggi è questo.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Gianluca Amadori, Monica Andolfatto, Maurizio Dianese, Mose. La retata storica, Nuova Dimensione, Portogruaro 2014;
Giorgio Barbieri – Francesco Giavazzi, Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia, Rizzoli, Milano 2014;
Gianni Belloni – Antonio Vesco, “Il sistema Mose: gli attori della farsa”, 18 luglio 2014: qui;
Gianfranco Bettin, Dove volano i leoni. Fine secolo a Venezia, Garzanti, Milano 1991;
Sebastiano Canetta – Ernesto Milanesi, “Padova infopoint: tre evidenze tra MoSE ed Expo”, novembre 2014: qui;
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Jill Lepore, “The Crooked and the Dead. Does the Constitution protect corruption?”, in The New Yorker, August 25, 2014 issue: qui;
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Renzo Mazzaro, I padroni del Veneto, Laterza, Bari – Roma 2012 (già recensito da Ernesto Milanesi ne il manifesto del 24 giugno 2012);
Guido Rossi, “Quando la corruzione diventa ‘legalità’” in Il Sole 24 Ore, domenica 24 agosto 2014, pp. 1 e 12;
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