Di TONI NEGRI
Via 8 febbraio? No: “via 7 aprile”. Ci fu un professore dell’ateneo padovano che la propose subito, all’indomani degli arresti, questa modificazione della toponomastica cittadina… Non se n’è ancora fatto nulla, ma ormai i tempi sono maturi.
Il 7 aprile 1979 cominciò un’affaire giudiziario improbabile. Da subito apparve ai più una cosa improvvisata e, sempre di più, malamente raffazzonata. Persino il modo nel quale si sviluppò la grande retata di quella mattina fu del tutto confuso. Prima di arrestarmi, ad esempio, la polizia che era arrivata “per una perquisizione” alle 10 del mattino (e non alle 5 come aveva sempre fatto nei mesi precedenti), molto poco convinta di quel che faceva, attese fino alle 13 per mostrarmi il mandato di cattura. L’imbarazzato commissario per un paio d’ore telefonò in giro per tutt’Italia (lo faceva dal mio telefono e io assurdamente pensavo alla bolletta…) per sapere quel che doveva fare. Cose analoghe mi hanno raccontato altri arrestati. Di fatto, Fais e Calogero (i due procuratori di Padova) non erano pronti, ma da Roma, Gallucci e Vitalone li avevano sollecitati a far presto, comunque andasse: bisognava far molto nuovo rumore, un vero fragore (“scoperti e arrestati gli assassini di Moro”) perché non si udisse risonare il fracasso che aveva fatto l’assassinio Pecorella, qualche settimana prima. Si avvicinavano inoltre le elezioni e bisognava – consuetudine repubblicana – arrestare qualche grosso criminale: la “certezza della pena” ha varianti diverse, ma sempre elettoralmente utili. Così, l’improbabile tesi accusatoria Calogero (“essere l’autonomia una O. che controllava e dirigeva i movimenti sociali, quelli operai e quelli armati”) fu messa in scena. Come su un tavolo da poker si faceva una giocata che poteva esser magica o svelarsi un bluff: fu la seconda alternativa a realizzarsi.
Che l’operazione “7 aprile” fosse, giuridicamente, un’indecente invenzione e, politicamente, una precaria operazione repressiva, non significa che non fosse stata preparata da lungo tempo. Almeno dal ’68, forse molto prima. Comunque, con decisione, dopo Piazza Fontana, i Servizi avevano infatti costruito il sordido progetto degli “opposti estremismi”. Che cosa significava? Che loro mettevano le bombe e poi sui movimenti extra-parlamentari doveva ricaderne la colpa. Con gli anarchici ci avevano già provato dopo Piazza Fontana, ma ormai non si poteva più ripetere con loro quello che, da almeno un secolo le polizie europee ed americane si erano abituate a fare: gli anarchici erano ormai protetti da universale compassione e generale simpatia per poter ancora esser considerati colpevoli: era il frutto lontano di Sacco e Vanzetti, il sacrificio prossimo di Pinelli. E allora – decidono i Servizi – il capro espiatorio sarà autonomo. Poveri untorelli! Non avevano davvero compreso quanto forte e onesta potesse essere l’autonomia studentesca, proletaria e operaia.
Ne sanno qualcosa i funzionari del Pci che si misero a disposizione, cuore e cervello, dell’operazione repressiva. Che cosa ne rimane di questi disgraziati? Infamia e disonore, gli si sono appiccicati alla pelle, si portano dietro quella responsabilità trasformata in figura di tradimento. Oggi forse cominciano a capire: han perso il pelo ed anche il vizio nella rincorsa del potere e dei suoi compromessi, son diventati nulla e l’odio dei traditi li perseguita. D’altra parte, quanto era stata maldestra ed imprevidente la collaborazione offerta! Con quale vergognosa manovalanza di provocatori, essi erano stati costretti ad agire! C’era di tutto, infatti, in quella banda di accusatori dell’autonomia: da giovani romanzieri affascinati da spengleriani tramonti dell’Occidente a filosofi discepoli di Evola; da poliziotti addestrati al terrorismo nel Sud-Tirolo a giovani neofascisti organizzati per l’infiltrazione, la provocazione e il terrore nelle legioni anti-comuniste di Gladio; da qualche debole propagandista del post-moderno e certi professori di storia di nobili ascendenze staliniste; dai giovani apprendisti nelle federazioni venete del Pci fino a un nugolo di giornalisti prezzolati, a cui largamente si offrivano, e nel caso anticipatamente, notizie, informazioni riservate, schemi di interpretazione, verbali di interrogatorio, intercettazioni telefoniche, frequenza nelle anticamere delle Procure, modelli di mistificazione delle notizie e della storia, ecc… . E, soprattutto, bugie: carognesche e diffamanti – ricordo una mia foto con il terrorista Carlos all’aeroporto di Algeri, che era, ovviamente, un grossolano fotomontaggio; ricordo pseudo-documenti che pretendevano di provare l’addestramento di Luciano Ferrari Bravo, di Ferruccio Gambino, di Sergio Bologna e di Nanni Balestrini (oltre che mio), in diversi campi oltre la cortina di ferro, ricordo il disco della mia voce presentato al pubblico come voce dell’assassino di Moro, in allegato a un noto settimanale. Tutte balle, aspetto ancora scuse.
In mezzo a tutto ciò, Pietro Calogero. Messo al lavoro senza che ci capisse nulla. Grottesca l’accusa, pietoso l’accusatore: in quattro anni e mezzo di carcerazione preventiva l’ho visto due volte. La prima, il 10 aprile nella Questura di Padova, dopo che ero stato arrestato, mi lesse il mandato di accusa e quando, incredulo, gli risi in faccia, mi mandò via; la seconda volta quando, nel giugno del 1983, mentre io stavo aspettando i risultati dell’elezione che mi avrebbe portato in Parlamento, venne a trovarmi (penso per rovinarmi la giornata…) nel carcere di Rebibbia, e io lo mandai via. Si sentiva comunque portatore di una verità rivelata. In un primo tempo convinto, poi dubbioso. Tabaccomane sempre. Almeno questo ci accomunava. Era vezzeggiato dai suoi compari, adulato dai politici, assunto al ruolo di “salvatore della patria”. Eravamo stati arrestati da due giorni e il Presidente della Repubblica, l’ineffabile Pertini, gli mandò un telegramma di congratulazioni. Secondo i codici e la Costituzione, noi dovevamo, come minimo, essere considerati “criminali presunti”, no invece, Pertini era talmente convinto del contrario che da allora continuò a considerare il processo “7 aprile” essenziale per lo sviluppo della civiltà giuridica in Italia e, subordinatamente, non nascose di ritenermi “persona che Lombroso avrebbe definito un delinquente nato” – come riporta in quegli anni un noto giornale in un articolo che ho ritagliato e che ancor oggi mi suscita nausea. Immaginate allora fino a che punto il procuratore Calogero, “salvatore della patria”, possa esser stato stregato da questa illuminazione scientifica di un “padre della patria”.
Quanto all’università di Padova, il comportamento del Rettorato fu semplicemente ignobile. Per comprenderlo, bisogna risalire a un dato essenziale: il ’68 italiano è durato dieci anni. Esplode nel ’68, ma si svolge, appunto, in dieci anni. Ora, a Padova, negli ambienti culturali e universitari, il maggio francese era stato risentito pochissimo. Quello che nel ’68 si forma (i vari gruppi politici studenteschi), piuttosto che verso l’università, va immediatamente ad articolarsi e a confondersi con la trasformazione industriale e la modernizzazione culturale di questo nostro territorio. In nessun luogo d’Italia, il ’68 ha avuto degli effetti così radicali – culturali, politici e produttivi – sulla composizione di una società fino a quel momento terribilmente arretrata, dominata da élites democristiane, forse meno brutali di quelle leghiste attuali, ma certo ancor più reazionarie. Il ’68 ruppe questa scorza, modificò non solo la cultura ma l’antropologia dei veneti. Quando, poi, negli anni ’70, i nuovi movimenti sociali si fecero sentire all’interno dell’università, la classe accademica (in gran parte partecipe delle vecchie tradizioni reazionarie e accomodata a una soddisfatta condizione insieme aristocratica e imprenditoriale) fu semplicemente terrorizzata. Era una classe dirigente ancora scioccata dalla tragedia del Vajont di cui era stata scientificamente e imprenditorialmente responsabile e da cui era stata penalmente (ma con quanta fatica!) assolta. Una classe accademica invecchiata e isolata, anche nella città. Gli altri due poli del potere padovano, infatti, il vescovado e i ceti commerciali e industriali, la consideravano ormai – così come meritava – una inutile sopravvivenza finanziaria e simbolica, un gruppo parassitario dal punto di vista industriale, un gruppo barocco dal punto di vista culturale. Negli anni successivi, l’università di Padova sarà disgregata dai poteri forti e distribuita sul territorio veneto all’inseguimento dell’industria diffusa.
Dunque: quando, così come un decennio prima era avvenuto a Roma o a Torino, a Milano o a Bologna, o già a Parigi e Berlino, qualche intemperanza degli studenti fece male, la reazione fu abnorme e terrorizzata, durissima, fuori misura: espressione di gruppi che vivevano, nell’università, assediati come in un piccolo Cremlino. Che cosa potevano fare allora questi accademici, che capivano davvero poco di quel che stava avvenendo? Produssero l’interpretazione che Angelo Ventura offrì, a disonore dell’onorevole storia della Patavina Libertas. In apertura dell’anno accademico, alla presenza di Pertini, Angelo Ventura lesse in effetti l’atto d’accusa di Calogero nei confronti degli arrestati del “7 aprile” come prolusione agli anni prossimi venturi. La “Rivista Storica Italiana”, auspice Leo Valiani, pubblicò quella prolusione. Com’era possibile che ciò avvenisse dalla cattedra dalla quale Concetto Marchesi aveva proclamato l’inizio della Resistenza nel Nord Italia? Com’era possibile che la “Rivista Storica Italiana” pubblicasse un testo non solo falso dal principio alla fine, ma ignobile nelle sue finalità repressive quanto settario nella sua proposta politica?
Ed ancora:com’è possibile che – in spregio della verità, di un’innocenza del tutto evidente, in una situazione per lo meno politicamente dubbia – la totalità della grande stampa si esponesse talmente a favore della colpevolezza degli arrestati nel caso “7 aprile”? Del “Corriere della Sera” si sa bene che in quel momento era divenuto proprietà della Loggia P2. “la Repubblica” ebbe, di contro, un comportamento emblematico. Di fronte a un’operazione (quella del “compromesso storico”) che sosteneva, il giornale sviluppò – pur nella piena consapevolezza dell’assurdità del caso “7 aprile” – due linee. La prima che, con perfetta ipocrisia, giustificava (non senza una certa pietas) l’operazione “7 aprile” con le ragioni dello Stato: questo fu Eugenio Scalfari. Giorgio Bocca, invece, giocò alla commiserazione ironica: siete innocenti, ma perché sfidare la ragion di Stato in tal misura?
C’è da aggiungere che, all’interno dell’università, molti professori dubitarono e spesso lottarono contro questa tremenda vocazione accademica alla repressione. Il mio ricordo grato e caro va a quel professore di glottologia che distrusse, a fronte dei funzionari della Central Intelligence Agency, la prova acustica che mi faceva autore della telefonata nella quale si avvisava la signora Moro della morte del marito. Alcuni dia Pci padovano furono complici, nel caso, della Cia. Per non parlare di qualche egregio linguista italiano, sempre legato al Pci, che pur mise la mano sul fuoco per garantire con accademica certezza ciò che si sarebbe rivelato solamente falso.
Il mio ricordo carissimo va anche a molti giornalisti, dei grandi e dei piccoli giornali, e soprattutto della Rai, che si opposero con continuità ed enorme generosità alla montatura del “7 aprile”.
Un mese dopo l’arresto circa, mi ritrovai con Luciano Ferrari Bravo a Rebibbia, nei quartieri speciali di quel ridente carcere. Luciano mi disse, appena ci trovammo: “ma questi son proprio matti!”. Io replicai: “senz’altro, ma qui, a partire dall’infamia e dal bordello dell’operazione, non ce la caviamo prima di quattro o cinque anni”. Così in effetti andò. Gli arrestati del “7 aprile” – messi tutti insieme – fecero circa 300 anni di carcerazione preventiva, uscendone totalmente assolti nella stragrande maggioranza dei casi – e parlo solo di quelli arrestati il 7 aprile e non di quelli arrestati più tardi e pure assolti, in marzo, in dicembre, ecc. Pecchioli, ministro (ombra) dell’Interno del Pci, Tarsitano, l’avvocato d’assalto di quel partito, Iblio Paolucci, il giornalista falsario dell’“Unità” – ecco tre tipi che una criminologia un po’ più moderna e un po’ meno selvaggia di quella ottocentesca e positivista (consona al sentire di Pertini) potrebbe descrivere come forme di delinquenza nella società della comunicazione del ventesimo secolo.
Ma contro che cosa, in realtà, si battevano questi signori? In primo luogo contro un istituto universitario: l’istituto di scienze politiche di Padova. Quasi tutti i suoi professori furono arrestati quel 7 aprile – costituivano un’associazione sovversiva e una banda armata. Eppure quell’istituto è stato l’esempio di una didattica aperta e un laboratorio eccezionale di produzione scientifica. Conosciuto dalle grandi istituzioni straniere e dalle grandi case editrici europee e americane, l’istituto aveva costruito un modello di “insegnamento partecipato” e sviluppato una serie di inchieste sulle trasformazioni sociali e politiche in Italia e in Europa, sui problemi del sud e sull’emigrazione, sulla sociologia industriale e sindacale. Bene – si dissero i pochi complici universitari di Calogero – questo sta fuori dai canoni dell’atarassia accademica e va tolto di mezzo. Oggi, dopo trent’anni, le ricerche dell’istituto padovano di allora sono ancora assunte come base di metodo e di scienza in molte delle grandi università globalizzate. E se a noi non piace confrontarci né con Galileo né con Giordano Bruno – per non parlare che di gente infelicemente passata tra noi veneti – dobbiamo riconoscere con umiltà di starci in mezzo a quel che conobbero e a quel che soffrirono.
In secondo luogo andava distrutta la capacità dei gruppi di studenti e di professori delle Facoltà padovane in rivolta di collegarsi alle lotte della classe operaia. Prima del 7 aprile, erano già stati buttati fuori dalla Fiat quei 61 operai di null’altro colpevoli se non di guidare le lotte e di essere in contatto con gli universitari veneti. Per tornare a noi, è noto quanto sia stato importante l’intervento degli studenti padovani nella costruzione delle nuove istituzioni del proletariato di Marghera. Lotte operaie colossali sono state organizzate anche attraverso il contributo degli studenti padovani; un grande processo di emancipazione che si sviluppava tra fabbriche e università, è stato così nutrito; le prime denunce sulle “fabbriche della morte” che a Marghera prosperavano, vennero fatte in quella stagione; le battaglie ecologiche che oggi son diventate comuni, sono state inventate e promosse allora. Ecco dunque quello che bisognava distruggere: non è un caso che su questo si sian ritrovati alleati e compromessi gli opportunisti del Pci e alcune rappresentanze della classe dirigente veneta (“Il Gazzettino” in testa). Ma quel comando industriale e sindacale che fino ad allora si riteneva forte – malgrado i colpi che l’insurrezione operaia gli aveva dato – era finito: stava costruendosi, con l’espulsione di molti operai dalle industrie-massa degli epicentri produttivi veneti, quell’enorme fenomeno che fu la fabbrica diffusa del Nord-Est. E lì, di nuovo, gli studenti e i professori rivoluzionari di Padova andavano indagando nuove forme di rapporti sociali, politici e produttivi – avevano costruito le categorie di “operaio sociale” e di “lavoro cognitivo”, ricche di molti sviluppi nei decenni successivi. Di contro, il gruppetto di amici di Calogero – che tuttora, nel secolo ventunesimo, sembra si incontri (vecchietti perversi), per compiangere il fallimento della sua operazione repressiva e per ridorare una verità beffata – ancora una volta non comprese nulla di quel che stava avvenendo, nella fattispecie le trasformazioni del Veneto e ciò che politicamente ne derivava. Per dei “chiarissimi” professori, lo svelamento della loro ignoranza è forse ancor cosa peggiore della denuncia della violenza con cui agirono.
Che dire ancora? Che l’Italia sia un paese che non ha mai conosciuto una vera e propria rivoluzione, che il paese Italia sia stato unificato da re stranieri, e che al suo interno continui a essere dominante un potere integralista e tirannico come quello vaticano – son cose note. Che il grande movimento socialista e comunista abbia costruito durante un secolo, dalla fine dell’Ottocento fino al ’68, una grande alternativa, insieme italiana e internazionalista, a quel destino secolare di soggezione e di sfruttamento (che nel migliore dei casi era stato travestito in ideale patriottico) – anche questo è noto. Ma perché, negli anni ’70 (e il “7 aprile” ne rappresenta uno snodo fondamentale) al prolungarsi di quella reazione che ha sempre dominato l’Italia, si è aggiunta allora la follia stalinista e si è nutrito l’imbroglio ideologico di una sinistra che si pretendeva comunista? Noi non lo comprendiamo ancora. E siamo lieti di non capirlo – perché può darsi che la stessa comprensione della corruzione sporchi l’intelligenza e renda malato l’animo. La storia successiva ci ha mostrato tuttavia che quel passaggio è stato fatale e che ha prodotto prepotenti tossine che l’organismo intero della sinistra italiana non è più riuscito a digerire. Tantomeno a neutralizzare o a trasfigurare politicamente attraverso una necessaria autocritica. Tutte le accuse del “7 aprile” erano false – e qui parliamo solamente di quelle relative all’agitazione sul territorio e nelle fabbriche. Non ci riferiamo a quelle grottesche che riguardavano l’identificazione dell’autonomia con le Brigate rosse; a quelle ridicole che vedevano nell’istituto di Scienze Politiche di Padova, il centro dell’organizzazione della lotta armata in Italia e in Europa; a quelle infami (che seguirono di lì a poco, a copertura del crollo delle prime accuse e al fine di tenerci in galera comunque) che imputarono, attraverso un gioco schifoso di testimonianze di spie improvvisate, infiltrati bugiardi e venduti (eufemisticamente chiamati “pentiti”), volgari e tremendi delitti agli accusati del “7 aprile”. Tutte le accuse erano false, se non una: quella di insurrezione. I movimenti italiani degli anni ’70 furono veramente un tentativo di trasformare, per vie extra-parlamentari, la costituzione del paese. E ci riuscirono, malgrado tutto ci riuscirono: perché in effetti la società italiana fu attraversata da un desiderio di nuovo, di giusto, di creativo che rimase nella coscienza e nel cervello della maggior parte dei giovani di quella generazione.
E poi, per finire, ci fu l’effetto demistificatore. I nostri avversari son tutti andati a male: persino un Berlusconi può irridere ora alla tradizione (comunista e cattolico-riformista) di cui essi erano portatori. E c’è paradossalmente solo da vergognarsi. Peccato per l’Italia, peccato per loro – e, se non fosse per quel corteo di innocenti accusati e assolti dopo anni di galera senza neanche una scusa, di famiglie sfasciate, di carriere sospese, di figli distrutti dall’assenza dei padri (o delle madri), di morti precoci, di vite rovinate dalle bugie e dalle tremende necessità della ragion di Stato (poiché è la ragion di Stato che vuole finti colpevoli a mascherare le proprie responsabilità), se non fosse dunque per tutta quella nauseante e profonda ingiustizia… un brindisi al 7 aprile e alla nuova toponomastica cittadina!
Parigi, 25 febbraio 2009
In «Processo sette aprile. Padova trent’anni dopo. Voci della «città degna»», Roma, manifestolibri, 2009.