di TONI NEGRI.
Nel settembre 1969, il primo numero di «Potere Operaio» incitava i lavoratori a lottare contro «automazione e negromazione» (con questo neologismo si indicavano coloro che sarebbero stati dall’automazione esclusi dal lavoro e destinati alla miseria sociale). Dinnanzi a quel primo apparire di congegni automatici, gli operai rispondevano: più salario, meno orario. L’automazione sembrava un alleato nel definire la forza lavoro in lotta come una «variabile indipendente» dello sviluppo.
Qualche settimana fa, in un seminario parigino, riders di «Deliveroo» ricordavano che le loro rivendicazioni erano, certo, «più salario», ma anche «controllo dell’algoritmo» per conquistare più decenti condizioni di vita. A cinquant’anni di distanza, mentre il padrone, senza vergogna, lesina sempre sul salario, i lavoratori puntano dunque la loro attenzione sulla governance automatica, considerandola un elemento fondamentale nella determinazione del comando sulle loro condizioni di vita. Se osservassimo solo le rivendicazioni, ieri orario, oggi flessibilità della giornata lavorativa, poco sembrerebbe essere cambiato – quando invece guardiamo alle riflessioni sui congegni automatici, scopriamo che è mutata una cosa essenziale: la maggiore interiorità che oggi il lavoratore ha rispetto all’organizzazione del lavoro, all’algoritmo. Quindi, sia la debolezza della sua collocazione nel processo lavorativo, sia la virtuale capacità, ovvero la forza, di rompere in maniera decisiva con l’organizzazione capitalista della valorizzazione.
Questa differenza ci introduce a un paradosso: quanto più il lavoro è sottomesso al capitale, agli automatismi della valorizzazione, come avviene oggi, quanto più ogni momento della vita del lavoratore è utilizzato dal capitale per produrre valore; tanto più il lavoratore è posto nella necessità di lottare per essere autonomo nell’organizzare la giornata lavorativa e la sua vita.
Il processo lavorativo sembra così, ora, essersi sganciato dal processo di valorizzazione e quest’ultimo sembra sussumere il primo, non immediatamente ma, collocandolo dentro un rapporto fluttuante e lasco.
Perché avviene questo? Perché l’operaio, il lavoratore (generalmente «cognitivo») ha una certa autonomia («cognitiva») che porta con sé quando si inserisce nel processo lavorativo – un’autonomia che il padrone deve assumere in quanto tale per utilizzarla nella produzione. Ma questo uso è difficile, il «valore della forza lavoro» non è totalmente riconducibile al «valore di scambio», l’autonomia del lavoratore è potenza lavorativa e, virtualmente, rifiuto di subordinazione. Tutto ciò costituisce lotta di classe e, come minimo, va contrattato: questa è la situazione. Fino a che punto si potrà stringere la supremazia del processo di valorizzazione, organizzato dal padrone, sopra il processo lavorativo vissuto e relativamente posseduto dal lavoratore?
Il padrone cerca continuamente di tirare la corda che lega il lavoratore, ma non può impiccarlo – impiccherebbe se stesso – sa dunque che le cose sono cambiate, che il lavoratore non è più quello schiavizzato nella piantagione e neppure quello massificato nella grande industria, ma è, per lo più, e comunque nella tendenza, «cognitivo» – quindi sempre più essenziale e sempre meno controllabile, perché la sua produttività aumenta quanto più il lavoratore è autonomo e potente nel rapporto cooperativo.
Leggiamo Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi) di Roberto Ciccarelli, in particolare il magistrale capitolo nel quale appunto di «forza lavoro» si parla.
Qui essa è crudamente «anatomizzata in vita», in movimento – come fare altrimenti quando la classe produttiva è caratterizzata dalla spontaneità e dalla mobilità del lavoro vivo cognitivo? Il lavoro vivo è qui descritto nella sua qualità di potenza immediatamente produttiva, tanto più potente perché questa sua facoltà è moltiplicata dalla cooperazione ed estesa nell’ulteriore rapporto che lega produzione e riproduzione.
Quello che sopra definivamo, oggettivamente, un paradosso, cioè la convivenza fra soggetto della valorizzazione capitalista (la forza lavoro sfruttata) e il lavoro vivo, cioè la personalità vivente nel lavoro, il lavoro di soggettivazione – quella convivenza che mal si combinava, anzi, che veniva spezzandosi, quel matrimonio difficile da celebrare fra processo di valorizzazione e processo lavorativo, è qui colto dal punto di vista del lavoro vivo stesso, dalla sua soggettivazione. Tale è infatti il senso della domanda: «cosa può una forza lavoro?» Nel capitolo conclusivo del libro si fissa così la scoperta della dualità potente della forza lavoro, nell’autonomia di quel lavoro vivo che si oppone, pur nutrendolo, al capitale costante.
A ciò consegue una questione ancore più importante: come può questo potere del lavoro vivo cognitivo, farsi forza? Come può farsi sovversivo? Questa domanda è da proporre, meglio, da riproporre, perché il libro di Ciccarelli comincia di lì, dall’ingabbiamento della forza lavoro nell’algoritmo, nelle piattaforme – e ne mostra con grande lucidità le vischiosità e le latenti contraddizioni, ne chiarisce la sempre virtuale dialettica oppositiva.
Una controversia, è l’eufemismo che Ciccarelli usa drammatizzando quella dualità di potenza e soggezione/sfruttamento e concludendo, senza alcun eufemismo, la critica della forza lavoro con un capitolo di etica rivoluzionaria. E spinoziana: «viviamo in un non sapere: non sappiamo di cosa è capace una forza lavoro, non sappiamo fino a dove può arrivare una potenza».
Bisognerà proseguire la ricerca sul terreno che è stato fin qui dissodato, e chiedersi come colpire il capitale sul terreno dell’algoritmo imprenditoriale (quando lo si sia riconosciuto come «soggettività del capitale costante») che organizza lo sfruttamento del capitale variabile.
In secondo luogo, si tratterà di comprendere quali siano le condizioni nelle quali i lavoratori possono organizzare strategie di rottura di quel dominio – questo è il terreno della «conricerca», cioè di un’etica divenuta prassi politica; e infine, si tratterà di cogliere, attraverso la lotta, i dispositivi di «riappropriazione proletaria» di quel «comune» che sta sotto le macchine della nuova organizzazione della valorizzazione.
questo testo è stato pubblicato sul manifesto/Alias il 27 gennaio 2018