Di SANDRO MEZZADRA

Che non vi sia alternativa alla vittoria dell’Ucraina il Presidente Zelensky lo ripete dall’inizio della guerra. Per questo chiede armi, armi, armi. Quantomeno dal discorso tenuto a Varsavia il 26 marzo (quello in cui ha scandito che “Putin non può restare al potere”), Joe Biden si è attestato sulla stessa linea, aggiungendovi l’obiettivo del cambiamento di regime in Russia. In una Russia, si è poi precisato dall’interno dell’amministrazione statunitense, che deve essere fondamentalmente “indebolita”. I crimini di guerra perpetrati da Putin includono senz’altro il genocidio, e con un genocida nessuna trattativa è possibile. E dunque sì, armi all’Ucraina: e dato che di fronte all’aggressore ogni arma è difensiva, ne sia fatto uso, sostengono i britannici, anche per attaccare la Russia nel suo territorio. “Fino alla vittoria”, ha affermato Nancy Pelosi il primo maggio dopo l’incontro con Zelensky, a fugare ogni dubbio.

È questo, in sintesi, il catalogo degli “obiettivi di guerra” dell’Ucraina e dell’Occidente a guida anglo-americana, sempre più esplicito con il passare dei giorni (lo ha ben notato Marco Bascetta sul manifesto, 29.4). Decisamente pretestuoso appare allora il dibattito che in Italia e in altri Paesi europei si sta svolgendo sull’invio di armi all’Ucraina. Armi per “difendersi” e “per non morire”, armi alla “resistenza popolare”? Non sembrerebbe, dato che – come si è visto nei primi giorni della guerra – l’esercito regolare ucraino era stato armato e istruito dagli Stati Uniti e dalla NATO almeno dal 2015 ed era perfettamente in grado di condurre una guerra difensiva. Le armi che sono oggi reclamate servono per condurre una guerra offensiva per procura, con gli obiettivi indicati da Biden e dalla sua amministrazione: il cambiamento di regime e l’indebolimento strategico della Russia.

Ma che cosa significa, per l’Ucraina e per l’Occidente, vincere la guerra? Mi pare che questa sia oggi la domanda essenziale. È del resto una domanda che gli Stati Uniti devono ben essersi posti negli ultimi vent’anni, dopo le memorabili parole pronunciate da George W. Bush – il primo maggio del 2003 – a proposito dell’invasione dell’Iraq: mission accomplished. Non è propriamente seguita la pax americana in quel Paese, per tacere dell’Afghanistan. Ma la guerra in Ucraina presenta ulteriori elementi di complicazione, considerato che la Russia è la seconda potenza nucleare del pianeta. Ed è toccato a Jürgen Habermas, dall’alto della sua veneranda età, ricordare una lezione che si pensava fosse stata infine appresa nei lunghi decenni della guerra fredda: ovvero che “una guerra contro una potenza nucleare non può più essere ‘vinta’ in nessun senso razionale” (Süddeutsche Zeitung, 29.4).

La minaccia nucleare resta sullo sfondo della guerra, anche al di là delle grottesche simulazioni dell’“incenerimento” delle metropoli europee proposte da un canale televisivo russo nei giorni scorsi (come se analoghe simulazioni non fossero possibili per Mosca e San Pietroburgo). Possiamo considerarla un “rischio calcolato”? Sappiamo in particolare come questa pretesa sia risultata fallimentare nel caso della Grande Guerra, proprio a fronte del progressivo restringersi degli spazi per il negoziato. E lo spettro di Sarajevo può assumere molte forme nello scenario bellico contemporaneo. Siamo dunque ben lungi dal poter escludere un’escalation che conduca all’allargamento del conflitto, all’intervento diretto della NATO e all’impiego sul terreno di armi nucleari, magari “tattiche” in prima battuta (ma si sa che i rapporti tra tattica e strategia si sono fatti confusi nella guerra contemporanea). Ma questa possibilità si presenta oggi in uno scenario che si è fatto più chiaro: quello di una guerra lunga, una guerra di logoramento (di “indebolimento”) della Russia, in cui gli Stati Uniti sono pienamente coinvolti al pari di chi ne segue le politiche all’interno della NATO. È infatti per “proteggere” le prerogative di quest’ultima, come ha ben spiegato Jeffrey Sachs (Corriere della sera, 1.5), che ormai l’Ucraina combatte. In uno scenario, quello appunto di una lunga guerra di logoramento, in cui la distruzione del Paese pare messa nel conto, con gli intollerabili costi umani che comporterebbe.

Non si vuole certo con questo ridimensionare le responsabilità della Russia e del suo Presidente. L’azzardo di una guerra di aggressione, con le violenze sulla popolazione civile che sono seguite, non può avere alcuna giustificazione. Ha dichiarato il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov all’agenzia cinese Xinhua (30.4) che è giunto il tempo per l’Occidente di “prendere atto delle nuove realtà geopolitiche” e che l’“operazione speciale” in Ucraina punta a sostenere il “processo di liberazione del nuovo mondo dall’oppressione neocoloniale dell’Occidente, pesantemente intrisa di razzismo e complesso di superiorità”. Parole davvero singolari, che da una parte interpretano dati reali, mentre dall’altra non temono il paradosso di presentare una potenza con pretese imperiali, il cui carattere “fraterno” è apparso dolorosamente chiaro ai ceceni, ai georgiani e ora agli ucraini, come campione dell’anticolonialismo. Viene in mente il Giappone negli anni Trenta del Novecento… E non è inutile ribadire che la Russia di Putin presenta caratteri di autoritarismo politico e sociale, di chiusura di fronte a ogni forma di conflitto (di lotta di classe), di resistenza all’innovazione tanto economica quanto culturale che la rendono ostile a un progetto di riorganizzazione dell’ordine mondiale su basi di redistribuzione della ricchezza e del potere, di libertà e di uguaglianza.

Resta comunque il fatto che il riferimento alle “nuove realtà geopolitiche” coglie un punto fondamentale sullo sfondo della guerra in Ucraina. E chiama in causa in primo luogo la Cina, che continua a mantenere una posizione defilata, certamente cauta nei confronti della Russia ma anche riluttante di fronte alla prospettiva di un intervento diplomatico diretto. È come se i tempi lunghi che si prospettano per la guerra non fossero in fondo sgraditi alla leadership cinese, che può approfittarne per consolidare le sue posizioni nell’Indo-Pacifico e contemporaneamente per affrontare i problemi interni che si sono in particolare manifestati nella gestione della nuova fase della pandemia a Shanghai. Resta però il fatto che lo spostamento dei poteri a livello mondiale, con il relativo declino dell’egemonia globale statunitense, costituisce il dato di fondo al centro della guerra. E la posta in gioco è un assetto geopolitico che consenta di gestire un’interdipendenza economica che anche in questi mesi (perfino con il contraddittorio esito delle sanzioni alla Russia) si è dimostrata irreversibile.

Ripetiamolo: c’è da dubitare che la Russia di Putin possa candidarsi a giocare un ruolo di guida in questo processo di rinnovamento. D’altro canto, l’atteggiamento degli USA, che punta a ristabilire un rapporto di forza con la Russia (e dunque con la Cina) e contemporaneamente a riaffermare un allineamento dell’“Occidente” (di cui è parte integrante la proiezione “globale” della NATO nell’Indo-Pacifico), si gioca sul filo dell’allargamento della guerra, che evoca necessariamente lo spettro della catastrofe nucleare. Quel che ne può derivare, nella migliore delle ipotesi, è una situazione di impasse, con il prolungamento della guerra di logoramento di cui si è detto. È piuttosto evidente che a pagarne il prezzo più alto – dopo la popolazione ucraina – sarebbe l’Europa, esposta a conseguenze economiche pesantissime che già si avvertono e sottoposta a violente pressioni per quel che riguarda la tenuta interna dell’Unione Europea (dove già oggi Paesi come la Polonia e i baltici impongono le priorità della NATO come criterio generale di orientamento dell’azione politica).

Si tratta dunque di comprendere se nei prossimi mesi si esprimeranno, nei principali Paesi dell’Unione Europea, posizioni capaci di affermare un interesse europeo diverso da quello degli USA e della NATO. Quel che è certo è che sta emergendo una diffusa consapevolezza del fatto che gli obiettivi di guerra di questi ultimi sono del tutto diversi da quelli proclamati nelle prime settimane del conflitto. “Vincere” la guerra significa ridimensionare la Russia, il che non appare possibile se non attraverso un prolungamento della guerra. Ora, a questo servono le armi inviate agli ucraini. È contro questo scenario che occorre rilanciare ed estendere la mobilitazione. Per fermare questa guerra, ma anche per far sì che nella situazione di cambiamento degli equilibri sul piano mondiale che stiamo vivendo non vi siano altre guerre. In Europa, in particolare, si tratta di fare pressione sui governi e sulle istituzioni dell’Unione affinché maturino posizioni autonome e si faccia quanto è possibile per arrivare a un negoziato. Sappiamo che, anche se posizioni autonome maturassero in Europa, non sarebbero le nostre. Ma quanto più forte sarà la nostra mobilitazione per fermare la guerra, tanto più spazio vi sarà per le lotte e per i movimenti sociali nel prossimo futuro. Ed è questo che significa, per noi, “vincere”.

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