di SIMON LE BON.

Oltre la resistenza e l’emulazione (ninetta mia morire di luglio)

Come nei peggiori film di Peppone e Don Camillo.
Don Congedi aveva ragione: “San Giovanni non vuole inganni”. Poco conta che il motto fosse speso per evitare la “rullata” a calcio balilla ovvero a cesellare gli insuccessi del compromesso storico. Qui e ora, il senso della massima poggia su inaudita verità musicale.

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Da tempo provavo a rappresentare, quantomeno a me stesso, il senso dell’11.07.14, allorquando la signora con la falce si era portata via → Tommy Ramone e → Charlie Haden.
Se era chiaro che si trattava di morti ben prima musicalmente che clinicamente, qualcosa comunque non quadrava. Troppo alto il debito contratto con i due per poter sorvolare e sull’evento e sul malumore che mi dava il ricordo.
Soltanto oggi comprendo: oggi, 23 agosto, 68esimo compleanno di → Keith Moon.
Il gioco, invero, non è nuovo: già Ivan Della Mea in tempi non sospetti [ovvero sospettissimi, per i Calogero di tutte le epoche (dove ovviamente “calogero” è il robot-pupazzo della pubblicità di Franco e Ciccio per una nota cera per pavimenti )] raccontò su Linus il diciannovismo giocando il sogno tra le sagome in cartone di Nenni e Stalin.
Qui è un po’ la stessa cosa.
Tra il cialtrone del bop della guerra lampo e il potente barricadero free spunta(va) da una scatola di fagioli l’omino che massacrava le pelli in → Happy Jack, insegnando il lirismo del default psicofisico attraverso il vitalismo della contro-prestazione (ecco ritornare – pur nel diniego del sinallagma e tantopiù della dialettica – la “rullata”, utilizzata non per vincere una spuma al “ginger“, ma per disarcionare tutti i → “Ginger” dell’altra batteria, quella fondata sulla supponenza e l’asservimento a lenti – e pessimi – chitarristi).
Ma procediamo con ordine.

1 – Ramone vs. Haden : vite differenti, musiche differenti.

Tra l’altro il roll roll roll del primo è durato qualche spicciolo di pre-reaganismo (salvo divampare sbiadito e pedante in qualche centro sociale o pubblicità di bevande blande), mentre l’esperienza del secondo si è protratta per 50 anni.
7 anni passano tra la lectio magistralis del secondo e quel Blitzkrieg bop che infiniti lutti addusse ai tapinelli del punk.

(a) Liberation Music Orchestra sfoggiava un free ancora fresco e debordante, gli standards su cui agiva l’improvvisazione non erano però di Berlin o Porter: si trattava di vecchie canzoni popolari (meglio dire, da fronte unico popolare) enfatizzate nel dolore che univa tutti nella lotta per la liberazione  da Milano a Madrid, “dall’America al Vietnam..”).
Difficile ora ricostruire o almeno immaginare il sentire proletario (perlomeno di quella parte dei proletari che ascoltarono, e sono tanti più di quelli che si possa oggi addirittura concepire) a quella marea montante di suoni, di gesti, che scendeva per le strade, varcava le foreste, risaliva i fiumi, caldeggiava sommosse, carezzava i più segreti sogni di bambino nell‘Unità se non del partito (quello brutto, delle spie, degli assessori in marsina, che dialogava con Andreotti che dialogava con la mafia che dialogava con i fascisti che dialogavano con i servizi segreti; così il cerchio è chiuso, l’ha detto Napolitano che Almirante era un grande statista) per lo meno dell’organizzazione.
E nella LMO l’organizzazione si sentiva pulsare come un solo uomo a difesa di Stalingrado. Organizzazione sfigurata dall’ossessione della difesa, quasi una Triestina della oggettività socialista.
Ma quello che qui ed ora interessa è comprendere il senso dei nostri sensi quando ascoltammo, quando ripetiamo l’ascolto, quando ci consola pensare quanto eravamo belli e forti.
Ma quando e quanto forti? È un album di morti!
La morte permea le note, le dissonanze rinnovano cordoglio, assoli potenti quanto l’incedere vittorioso di un T34 verso Berlino, certi che da li non si procederà più.
Indietro non si torna, si diceva.
E infatti, da allora fu tutta una vita di resistenza. di difesa: del posto di lavoro, delle conquiste sindacali, della costituzione (gli esiti della lotta sono sotto gli occhi di tutti), dei beni comuni, degli enti pubblici…

…comunque a me interessa che non si sia andati avanti.

Oltretutto, tanta pompa impediva di comprendere che il più delle volte erano canzoni sì popolari, ma brutte (anche per questo Berio restò per tanti un olio da cucina nel rimpianto di Beria, evidentemente).
Riciclare tutto per educarne uno? Probabilmente lo spettro del Che ha intaccato non solo le nostre magliette.
La cosa non sarebbe grave (anche perché il disco rimane bellissimo) se l’equivoco non si ripetesse da cinquanta anni e senza neppure la giustificazione della marea montante e della lotta popolare (a meno che qualcuno ci marci, e qui penserei più a Renzi che a Rizzo).

Conclusivamente.

Senti il disco e sei pervaso di etica del lavoro (che neanche Landini di ritorno dal colcos di Buridano) di voglia di combattere, di unità, pacche sulle spalle, strette di mano…
Parti per occupare piazza San Pietro e ti ritrovi assessore all’urbanistica di Milano o sindaco di Genova. Perché gli anni sono passati, il Che è morto, l’unità non è neanche più un giornale, Gramsci è solo una via, un democristiano è presidente del consiglio (un po’ di continuità allora c’è…).
Ma la vogliamo? Ci piace?

(b) Si può parlare di continuità, di terzinternazionalismo nel caso di Tommy Ramone ?
Certo il V reggimento non scorrazzava per le strade di New York nel lontano ’74, certo quei quattro ceffi non sarebbero stati accettati in un corteo dell’MLS, ma sempre di resistenza, di sofferenza, di separazione si parlava.
Raccontava l’odiernamente onorato che tra i Ramones c’era più che musica; c’era un’idea. Il punto era trasformare tutto in un sentimento che non fosse presente nella musica rock. Era un impulso verso l’esterno.
Ma quale era l’esterno che i Ramones volevano raggiungere? E quali i sentimenti?
In effetti quello che ex post fu definito Urban Surf recepiva qualcosa dalla vita di ognuno, il senso della fine, della perdita, del resistere resistere resistere.
Le macerie della “factory” risaltavano inutili come il suo inventore, Bretton Woods era ormai un ricordo e Nixon offriva interessanti spunti per giornalisti d’assalto (da noi d’assalto c’erano i “pretori”, li ricordate?).

Se il → tribal thunder di Dick Dale consentiva l’appropriazione del benessere attraverso il sole e il mare (magari con un po’ di ritardo rispetto a Leon Blum), la salute esplodeva nei giovani corpi che vibravano al vibrato ostentato protestando felicità ed esodo, i Ramones portavano il corpo senza organi degli → Shadows nel fetore dell’asfalto liquefatto, con logore vesti e riffs stantiti.
Nel caso dei Ramones la nota caratteristica è il monolitico approccio alla velocità (del tutto apparente, peraltro) come canone interpretativo, ripetizione ossessiva della stessa canzone per dischi e dischi (quasi che Umberto Tozzi sembrasse Derek Bailey) in salsa resistenziale.
Se Haden annegava nel mare delle lotte per la liberazione dei popoli oppressi (mica è un caso se ancora oggi il germe induca febbri che fanno intravedere nell’ISIS un soggetto anticapitalistico), i Ramones perdevano la lotta per difendere una città che neppure “car wash” (ancorché affermando la fine del lavoro salariato) riuscirà a salvare dalla ristrutturazione finanziaria.

2 – Musica militante.

RamonesSe diversi erano gli stili (gli strilli?) identica la sofferenza nella diversità perdente.
L’ossessione granitica bloccava ogni flusso di vita nello stridore del sax e/o nel susseguirsi dei facili accordi.
Fosse il combattente della sierra fosse il protopunk (che poi proto un par di balle, solo si avessero ascoltato → Question Mark and the Misterians) capellone (una contraddizione?) i suoni si limitavano alla ripetizione ossessiva del nulla nell’esalare del vinile.
Le immagini che la musica ci restituiva non erano veritiere del tempo che scorreva.
La musica restava lì… a coltivar ninfee (verrebbe da dire, se non fosse una citazione da Vecchioni e allora fa cagare ).
Il soggetto (fosse politico fosse musicale, fosse politico e quindi personale) era oltre, ripudiava la guerra, la resistenza (in sé come con la “R” maiuscola) cercava il benessere.
Nello scontro dovevano affermarsi la diversità e l’esistenza di qualcosa di altrettanto reale del capitale ma che nella disordinata rimozione dell’atrocità della vita, lo superasse.
LMO e Ramones non riuscirono a percepire lo scorrere dell’emergenza proletaria che era già lontana dal vagheggiare dolori e sacrifici (anche l’auto-imposizione ad essere brutti, ad esempio, è sacrificio, dovendosi semmai fondare una bellezza “altra”).
L’immaginazione rattrappita, la lotta fine a se stessa provocavano l’insipienza del procedimento creativo. Da lì non si poteva andare avanti. la strada era sbarrata dalla stessa scelta stilistica e di vita.
Incapaci di comprendere l’intera vita messa al lavoro, ostinati ad aborrire le otto ore e la catena allorquando il capitale le aveva già archiviate, il free e il punk morivano con Detroit e Mirafiori.

3 – Walking on the (Keith) Moon

Ecco quindi emergere nei pensieri il folletto di Wembley (prima e meglio di Capello), colui che urticava la percussione che gli dava gloria.
Era strumento incorporato nel corpo vivo del proletario combattente, macchina pulsante che creava soggettività in barba al chitarrista fascio.
Dove il jazz (quel jazz, quello di → Sweet Mao, per intenderci, mica parlo di Steve Lacy) si annichiliva a progettare recuperi improbabili della lotta al colonialismo, quando il punk ramonico sprizzava necrologie autocompiacenti, il nostro cavalcava l’epopea mod superandola, spezzando le catene fordiste, invocando il potere precario della dissoluzione di sé quale prodotto di amplessi mortiferi tra genitori d’acciaio.

Dicono che una volta, distrutta una camera di albergo sia tornato indietro perché dimenticatosi di un televisore ancora intatto.
L’impossibile canonizzazione lo rende supremo accesso al nuovo mondo.
Lontano da papi polacchi e dj argentini, estraneo a vagabondaggi prodian-schroderian-blairiani, meno che mai soggiogato dal fascino flaccido del dinamico duo renzi-boschi chi guarda alla dissoluzione della musica (e perché no, dello stato) rivolge una prece al rigoglioso drummeggiare dell’omino lunare che odiava il grasso (grease?) delle officine e spingeva verso il paradiso dei proletari…

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