Di FANT PRECARIO
Una volta, qualcuno disse che le “tesi di aprile” vanno bene ad aprile.
Era, ed è, verissimo.
Vale per tutto. Ogni pensiero, al cospetto dell’affermazione, si scrosta di debolezze, timori, sguardi all’indietro, giustificazioni molteplici per una conclamata impotenza.
E, si badi, l’affermazione deve estendersi anche alle disamine del presente, pur valide e condivisibili, perché il tentativo di capire il presente si infrange il più delle volte nelle casematte della datità.
Vedere il Beppe che oltraggia il 25 aprile a palazzo Borghini, il Presidente che sfoggia un assolo al cospetto del milite ignoto (ignoto alle mani, di quel vivo illustre da bene, che verrà a sputare domani, altri fiori sulle tue catene), il PD che rappresenta – a social unificati- la resistenza come avvio di una concorde “ricostruzione” o come figlia di una collaborazione con gli USA (che più che con il CLN, collaborarono con la mafia; ci dica dott. Franceschini chi erano Giuseppe Lasagna Mancini o Arduino Fiorenza), in quest’anno di doverosa clausura, fa meno male.
Sarà perché sono (più) vecchio, sarà perché il virus con i suoi morti e i decreti liberticidi ha chiarito il senso di questi ultimi 75 anni, anni nei quali quel poco di benessere di cui si è goduto lo si è ottenuto superando quel giorno, progressivamente, valorizzando il senso degli atti e dei sacrifici, brandendo l’insurrezione come un martello, mai portando fiori o cantando canzoni che i partigiani mai cantarono.
Il 25 aprile lo hanno inventato i Flo & Eddie della democrazia (quelli per i quali, la rivolta di Ragusa del gennaio ’45 era un “rigurgito fascista” da sanzionare con 19 morti e 63 feriti – cifre sottostimate-) per mettere, con una data, la parola “fine” ad un film che durava dal 1919 (e che l’ultimo fotogramma spaparanzasse “FINE” alla Lizzani o “the end” come nelle peggiori transumanze hollowoodiane, poco importa).
Il 24 aprile è il vero 25, oppure non è.
Il 24 aprile sono gli scioperi del 1943, le rappresaglie e i saccheggi del 1944, ma anche i morti di Gravina di Puglia del 2 maggio 1945, l’omicidio di Giovanni Pivetti dell’11 settembre dello stesso anno, data cara ai Kissinger di tutte le epoche, e le rivolte che esplodono spontanee in tutto il sud Italia, là dove la “libertà” era stata raggiunta a mezzo di jeep, da più tempo.
Eggià, cari ragazzi.
Come ieri a Milano, c’è stato un tempo in cui festeggiare il 25 aprile con il fazzoletto rosso era impossibile.
Mentre il principe Borghese elargiva monete d’oro ai patrioti della X, mentre un futuro ministro della difesa ne promuoveva il recupero per creare un’armata di novelli gladiatori per la grandezza di Roma (mai così pontificia), il fazzoletto rosso provocava, quando non il tuo decesso, il licenziamento e l’epurazione.
Nell’aprile del 1946 issavi una bandiera yugoslava e taaac, ti seccavano come un fringuello, aprivi una sede del PCI e i monarchici la mettevano a ferro e fuoco.
Anche il 1947 registra un aprile di sangue proletario.
La repubblica nata dalla resistenza non protesse, indubbiamente, Riccardo Suriano ed Evelino Tosarello, Luigi Venturini e Sante Mussini (e siamo al 1948), nella vigenza della pax pacelliana.
Per comprendere (e RIFIUTARE) le parole di Franceschini, sopra riportate, ricordiamo Francesco La Rosa strangolato il 4 aprile del 1949 (evidentemente da tanto inaspettato libero benessere), o gli oltre 30 feriti di Molinella. E mentre la ricostruzione procedeva, che dire del “concertone del I maggio” 1950 a Celano, quando un rave registrò il decesso per overdose di mazzate di Antonio Berardicuti, Agostino Paris e Antonio d’Alessandro?
Il 25 aprile diventa festa di tutti quando, sulla spinta di quelle lotte (e di quelle successive), preti, agrari e industriali (per usare un gergo retrò) comprendono che, nonostante tutto, il nero non va più di moda e allora con il primo centro sinistra è tutto un florilegio di tricolori e ministri affrettarsi a rievocare una storia tanto falsa quanto annusata dai giovani aspiranti D’Alema che la metteranno a valore.
Il furto è evidente, l’arbitro non fischia e il gioco si fa molle come il ventre di un democristiano.
Il 25 aprile ora “sdoganato” è espressione di un connubio mortifero tra cani rabbiosi e pastori di un gregge che doveva essere ammansito [se il capitale è un rapporto, il rapporto stritola i granelli che ne intralciano la corsa (non entro nel merito dello squallore ulivista)].
Eppure, nonostante tutto, quella data rimane una piaga sul corpo liscio e translucido del capitale; una piaga che continua a spurgare e riversare sul selciato gocce di pus, evidentemente sgradite.
Ed eccoci all’oggi, alla repressione di 24 ore fa, allorquando l’ordine costituito ha riportato il 25 aprile alla sua sede naturale, quella del divieto.
Il virus ha rimesso le cose a posto.
Nella regola della libertà di andare a lavorare e comprare i beni necessari alla sussistenza, il 25 aprile è un lusso, l’insurrezione, la resistenza sono atti vietati, ma -e qui la differenza- per il nostro bene. Il divieto è [in apparenza (la falsità del capitale dovrebbe essere -almeno questa- nota)] volto a preservare il nostro corpo (quello stesso corpo che il capitale divora incurante in fabbrica o nei nostri tristi loculi smart) e quindi posto per il nostro “bene” (bene unilateralemente assunto); se la legge è precetto “in ogni caso”, laddove si ammanta di giustizia e di interesse popolare, diviene incontestabile e chi ci prova è “fuori” (come diceva l’inarrivabile Briatore nel programma TV ideato da Trump). Viene a pensare alla farsa del “giusto processo” dove l’afflato a direzione, traguardo, diviene risultato acquisito, fine raggiunto e da conservarsi a prezzo della più turpe delle riforme (e il contraddittorio, in questo caso è l’Ardizzone designato).
Il divieto è, invece e concretamente, DIVIETO di ricordare, ma prima di tutto intralcio a che l’anniversario dismetta il carattere di celebrazione e le cartoline sbiadite rivelino corpi vivi, pulsanti, e questi si innestino nei nostri. Un’identità fluida e scorrevole, come la visione cumulata di fotogrammi di un brutto film poliziesco dei ’70.
Le novità dei decreti sono già tutte presenti nella gestione dell’ordine pubblico degli anni ’50. La tragedia è che -diversamente da allora- ci si è convinti che lo stato esista e noi ne siamo parte e non, come allora (e sino a tutti gli ’80), sgradite scorregge uscite dalla marmitta di una Lambretta.
Dicevo, che il 25 aprile è una piaga sul corpo liscio del capitale che continua a spurgare e riversare sul selciato gocce di pus.
Partiamo da qui. Dall’essere virus, malattia, tumore. Tante sono le metafore generate dall’ingegneria dei servi del capitale per indicare gli untorelli di ogni età.
Siamo parte del capitale, integriamo la vita del bastone che ci colpisce con il nostro costante respiro.
Il polmone afflitto, il pancreas eroso sono pur sempre organi, ma di un corpo che muore; anche quel 24 aprile, i ragazzi che invadevano Genova erano completamente innestati nel fascismo (i più, nati nel periodo ’22-’25) che li aveva allattati (non per nulla erano “figli della lupa”), il fascismo cadeva e il virus insorgeva e ipotizzava un’alternativa con esso incompatibile.
E oggi, che gli inutili, i poveri, i vecchi cadono a sciami nel lager cui il benessere mod. Franceschini li ha confinati, che gli “utili” vedono riconosciuto il lasciapassare solo per rendere servigi e ammalarsi; nel brulicare di inviti a servire (nel senso di rendersi utili) ovvero a inscenare gesti tanto inutili quanto meramente contrappositivi, dov’è il 24 aprile?
Moltitudine sgradita e malsana dobbiamo scendere dalle montagne per mostrare il (contro) potere del virus che informa la nostra esistenza perché occultato, infettare il respiro dei secondini, svelare la farsa delle misure d’aiuto alle aziende (come pacchi dell’UNRRA) che ignorano il nostro essere impresa, lordare case e chiese, stadi e vicoli.
Però, stiamo attenti; scendere dalle montagne non significa correre per le strade come Cocciante verso la sua Margherita ma cominciare ad avviare un pensiero che abbandoni ogni riferimento alle ipotesi estranee alla vita dei poveracci (misure che tale vita presuppongono, ma solo in termini di sfruttamento) e cerchi di riprendere, proprio, il filo della pulsione stracciona di quei ragazzi laceri e con divise improvvisate che, come tutte le più belle cose, durarono solo un giorno come le rose (o Bisagno).
Però bisogna ORA decidere (i) di cosa e perché si muore (perché il virus è brutto ma il lavoro non scherza); cosa e perché ci serve per affrontare un ritorno alla normalità che tale non sia, perché la normalità di questi ultimi 40 anni è una merda montante e soffocante; (iii) come gestire (e non farcela gestire da qualcuno, magari anche bravo) la crisi economica che emergerà, e in modo devastante; (iv) come conservare una autonoma e ingovernabile produttività, implementandone la messa a disposizione di chi la condivide e/o ne necessità, (v) evitando che misure contingenti portino a compimento le modalità di espropriazione della vita sin qui confezionate dal comando capitalista, (vi) evitando, altresì, che l’unico modo di sottrarvisi sia la morta o la riduzione a macchietta.
Perché, compagni, non so se la mia vita sia nuda, ma senz’altro è una vita di merda.
[Un esempio? Con nota del 21 marzo 2020, un’organizzazione sindacale ha proclamato per il successivo 25 marzo uno sciopero generale di 24 ore per tutte le unità produttive pubbliche e private, richiamando le deroghe previste dall’art. 2, comma 7, della legge 12 giugno 1990, n. 146, come modificato dalla legge 11 aprile 2000, n. 83. La motivazione dello sciopero è basata sulla decisione del Governo di “mantenere aperti e funzionanti le aziende e gli uffici non essenziali ai fini del contrasto dell’espandersi della pandemia da Covid-19”, nonostante fosse ritenuto indispensabile evitare qualsiasi contatto tra le persone per fermare il diffondersi del contagio. Per tale esigenza, il soggetto proclamante ha lamentato che i lavoratori sono costretti ad andare sul luogo di lavoro, servendosi di mezzi pubblici inidonei a garantire la loro sicurezza e incolumità̀; inoltre, sugli stessi luoghi di lavoro non sono state assunte tutte le tutele necessarie nel rispetto delle vigenti leggi in materia di prevenzione e sicurezza. Tutto ciò̀ aggravato – ad avviso sempre del sindacato – dal rapido diffondersi del contagio su tutto il territorio nazionale, con l’insufficienza del servizio sanitario a garantire prestazioni adeguate al livello di gravità assunto dalla pandemia, mettendo in situazione di enorme rischio l’incolumità̀ e la sicurezza dei lavoratori. L’Organizzazione proclamante, inoltre, ha precisato che per i lavoratori impegnati direttamente nelle prestazioni di soccorso alla popolazione l’astensione si sarebbe concretizzata nella forma simbolica di un minuto (porco dio, un minuto, ndr), prevedendo diverse modalità̀ di effettuazione a seconda della tipologia di servizio interessato (ad esempio: per il personale del settore della sanità, un minuto tra le 13.30 e le 14.30; per molti altri servizi, il minuto di astensione si sarebbe dovuto effettuare alla fine di ogni turno di lavoro).
Con comunicazione del 24 marzo, la Commissione ha invitato il soggetto proclamante a rinviare l’astensione in ragione dell’emergenza epidemiologica, considerate le disposizioni governative e gli inviti formulati dalla stessa Commissione, riservandosi di accogliere manifestazioni dimostrative della durata meramente simbolica e di aprire un procedimento di valutazione del comportamento sindacale nel caso in cui l’invito fosse stato disatteso.
In pari data, è stata registrata altresì̀ da parte di altra Organizzazione sindacale l’adesione allo sciopero del 25 marzo, subito revocata a seguito della ricezione dell’invito della Commissione. Il soggetto proclamante, invece, quale risposta all’invito formulato dalla Commissione, ha dichiarato l’impossibilità a rinviare lo sciopero generale, nella considerazione che nessuna delle motivazioni a base dell’astensione fosse stata superata ed attesa la particolare gravità di esposizione dei lavoratori al pericolo per la loro incolumità̀ nonché́ per la salute degli stessi e della intera cittadinanza. Per quanto riguarda le modalità̀ di effettuazione dell’astensione, la stessa Organizzazione ha confermato l’articolazione come da proclamazione, ad eccezione degli addetti all’igiene urbana e alle cooperative sociali o dipendenti da imprese impegnate all’assistenza e cura delle persone, il cui sciopero è stato ricondotto alla misura simbolica di un minuto.
In fase di valutazione, la Commissione ha avuto modo di precisare che le astensioni proclamate in difesa dell’ordine costituzionale o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità̀ e della sicurezza dei lavoratori, ai sensi dell’art. 2, comma 7 della legge n. 146/1990, devono avere una durata simbolica e sono ammesse soltanto in presenza di specifici gravi eventi o specifiche situazioni di pericolo oggettivo, certificato dalle competenti Autorità̀, che devono ad ogni modo essere valutati per singola fattispecie.
Lo sciopero generale come proclamato non risulta compatibile con la grave situazione di emergenza registrata in Italia, considerato peraltro che è stato annunciato con diverse articolazioni e forme di attuazione distinte per tipologia di lavoratori dei vari servizi pubblici essenziali, dove l’Organizzazione sindacale si è addirittura riservata per taluni settori di comunicare successivamente eventuali ulteriori modalità̀ di svolgimento per categorie o ambiti territoriali.
Ad avviso della Commissione, una tale astensione in un periodo di delicata e grave emergenza epidemiologica, oltre a risultare inopportuna, contribuisce a generare un diffuso senso di insicurezza e a produrre incalcolabili danni per la collettività, determinando anche un inaccettabile aggravio per le Istituzioni e le aziende coinvolte nell’attività di prevenzione della diffusione del contagio, con l’evidente rischio di vanificare le azioni di contenimento attivate con i provvedimenti governativi.
In questi particolari periodi, infatti, le garanzie dei servizi individuate dalla legge n. 146/1990 e dagli accordi, dai codici di autoregolamentazione e dalle Regolamentazioni provvisorie applicativi devono essere assicurate nella loro interezza, senza disarticolazioni di servizi e/o attività̀, come invece previsto dalle modalità̀ di effettuazione dello sciopero generale. Proprio con riferimento alle discipline applicative della legge nei diversi settori dei servizi pubblici essenziali, viene altresì̀ sottolineato il fattore comune connesso alla previsione della sospensione delle astensioni in caso di avvenimenti eccezionali di particolare gravità o di calamità naturali o di stati di emergenza dichiarati dall’Autorità̀ competente
All’Organizzazione sindacale proclamante è stato fornito un periodo di trenta giorni dalla notifica della delibera per presentare osservazioni ovvero per richiedere di essere sentita: sessanta giorni per continuare a morire, oggi come ieri, di lavoro.