Di SANDRO MEZZADRA

Che cosa è stato il bolscevismo? Una ferrea politica di partito, si dirà, i cui principi di fondo sono stati fissati da Lenin nel Che fare? (1902), sono stati affinati nella rivoluzione del 1905 e poi esasperati in funzione dell’insurrezione di ottobre dopo il ritorno di Lenin in Russia nell’aprile del 1917. Attorno a questa immagine della politica bolscevica si sono organizzate fin da subito le critiche interne al movimento operaio, nelle sue stesse componenti rivoluzionarie (basti pensare a Rosa Luxemburg), mentre la storiografia borghese non esita a liquidare come un putsch la Rivoluzione di Ottobre. Dopo la morte di Lenin, del resto, il “marxismo-leninismo” – tanto nelle sue varianti di regime quanto in quelle che a lungo sono proliferate in molte parti del mondo – ha ridotto il bolscevismo a icona, fissandone i tratti che si sono sinteticamente ricordati.

Certo non sono mancati, nei cento anni che ci separano dalla sua morte, letture e usi diversi del pensiero di Lenin e della politica bolscevica.  Che si tratti del Black Panther Party negli USA, di Mao in Cina o di un’organizzazione come Potere operaio in Italia, per fare solo qualche esempio, al centro di queste letture e di questi usi è sempre stata la questione del rapporto tra organizzazione e politica di massa: una questione che di continuo si ripropone all’interno dei movimenti e delle lotte sociali, sia pure in condizioni diverse da quelle in cui si trovò ad agire Lenin. Sotterraneamente, corre attraverso gli anni la storia di un altro bolscevismo, per riprendere il bel titolo di un libro di Emilio Quadrelli, appena uscito per DeriveAppprodi (pp. 207, euro 18). Il sottotitolo indica la direzione della ricerca: Lenin, l’uomo di Kamo.

Chi era Kamo? Un bandito, risponde Quadrelli. Nato in Georgia nel 1882, entra giovanissimo nel partito socialdemocratico dove assume compiti di direzione delle strutture clandestine. Negli anni successivi, diventa un uomo di riferimento per le attività illegali dei bolscevichi (a cui partecipano dirigenti di primo piano, come Litvinov e Stalin): organizza rapine, trasporto di armi, evasioni. Le prime pagine di Proletkult, dei Wu Ming (2018), lo presentano sulla scena di una rapina a Tiflis, nel 1907, “nella sua bella uniforme da capitano” prima che crepitino le granate. Un bandito, dunque: ma organicamente legato alla direzione bolscevica, tanto che la sua biografia più nota, di Jacques Baynac, si intitola Kamo, l’uomo di Lenin (Bompiani, 1974). Nel rovesciare questo titolo, Quadrelli propone un rovesciamento del modo stesso in cui dev’essere pensata la politica di Lenin.

Si diceva che in questione, nelle diverse manifestazioni storiche dell’altro bolscevismo, è sempre stato il rapporto tra organizzazione e politica di massa. Quadrelli lo affronta con decisione, sottolineando come la critica leniniana dello “spontaneismo” si concentri sulle derive che conducono le lotte operaie all’inizio del Novecento a ripiegare su posizioni che si possono definire “corporative” (“tradeunioniste” era il termine usato da Lenin). Contro queste derive, il partito rompe con il feticcio dell’“unità di classe”, individua le componenti che nei loro movimenti e nelle loro lotte tengono aperto un orizzonte rivoluzionario e formula una “tattica” che ne esalta le indicazioni strategiche. È una prospettiva esplicitamente vicina a quella delineata da Toni Negri in La fabbrica della strategia (1974) e al tempo stesso debitrice di molte suggestioni interpretative a Györgi Lukács (Lenin, 1924). “Il partito”, scriveva quest’ultimo, “non si presenta come qualcosa di già definito nella sua missione di guida: anch’esso non è, ma diviene”.

Ne deriva una tensione, per riprendere categorie già marxiane, tra “partito formale” e “partito storico”. Nella lettura di Quadrelli, Kamo è il nome di questa tensione: la sua azione illegale finisce per confondersi con i movimenti di grandi masse anonime che continuamente rinnovano la “soggettività politica” rivoluzionaria traducendo in assoluta “inimicizia” il senso di estraneità all’ordine zarista. C’è tuttavia almeno un altro punto su cui l’analisi di Quadrelli è molto originale, ovvero il rapporto tra Lenin e il populismo. Non è in questione, ovviamente, il giudizio senz’appello di Lenin, fin da Lo sviluppo del capitalismo in Russia (1899), su quelli che in quell’opera sono definiti “gli errori degli economisti populisti” – ovvero sulla difesa di quello che appare come “il mondo di ieri” da un capitalismo inteso come esterno alla formazione sociale russa. Il punto è che, secondo Quadrelli, questa critica si combina con un recupero di aspetti fondamentali del populismo (in particolare della Naradnaja Volia, l’organizzazione a cui appartenne il fratello di Lenin, impiccato nel 1887), dal rapporto tra azione politica e azione militare all’immagine di un intellettuale che prefigura il “rivoluzionario di professione” bolscevico.

Mi sembra un punto importante, soprattutto se lo si svolge, come Quadrelli comincia a fare in questo libro, dal punto di vista della rottura che Lenin determina nella teoria e nella pratica dell’internazionalismo. Certo, la Russia è ormai ben lungi dall’incarnare un’“alterità nei confronti dell’Europa”. Il modo di produzione capitalistico vi ha posto solide radici, su questo come si è detto la critica al populismo è senza appello. Ma Lenin, proprio per la sua ricezione selettiva di alcuni aspetti del populismo, assume fino in fondo e valorizza la posizione liminale della Russia rispetto all’Europa, guarda oltre i suoi confini e – con particolare radicalità dall’inizio della Grande Guerra – critica senza indugi l’eurocentrismo del marxismo della Seconda Internazionale. La politica comunista, d’ora in poi, non può che essere politica mondiale, e le lotte anticoloniali ne sono una componente essenziale.

Mi sono soffermato sulla lettura di Lenin proposta in L’altro bolscevismo per evidenziarne gli aspetti che trovo più originali e meritevoli di ulteriori ricerche e sviluppi. Il libro di Quadrelli, tuttavia, si compone di altre due parti: la prima segue le tracce di Kamo nel “ventennio rosso” italiano, la seconda formula qualche ipotesi sull’attualità dell’“altro bolscevismo” nella congiuntura attuale. Il metodo utilizzato per ricostruire “la stagione di Kamo” è definito da Quadrelli “etnografico”, e si basa su lunghe interviste a protagonisti delle lotte di quegli anni in fabbrica, in quartiere, all’università e in prigione. Sono pagine appassionanti, scritte con il talento che ben conoscono lettrici e lettori di Andare ai resti (di cui una nuova edizione ampliata è annunciata per DeriveApprodi). Certo, protagonisti e protagoniste dichiarano di avere letto la biografia di Kamo: ma al centro della narrazione c’è quell’elemento dello sfrangiamento, della tensione tra “partito formale” e “partito storico” di cui ho parlato in precedenza. Se tuttavia a proposito del bolscevismo storico Quadrelli può celebrare l’incontro tra Lenin e Kamo, qui, negli anni Settanta italiani, non può che descrivere la “solitudine di Kamo”, il mancato incontro tra una radicalità di massa ben documentata e una politica capace di articolarla in un progetto di potere.

A me pare che questa “solitudine” caratterizzi anche il nostro presente. Nell’ultima parte del libro, Quadrelli affronta questioni cruciali rispetto all’attuale composizione di classe, ne sottolinea le dimensioni internazionali, pone in evidenza la progressiva erosione delle mediazioni politiche e sociali, riconosce nell’insorgenza femminista una sfida essenziale per ogni teoria della soggettività politica, critica a fondo populismo e sovranismo di sinistra. E tuttavia la sua proposta di assumere la centralità del “partito della banlieue”, a partire da una rilettura del concetto di “esclusione sociale”, contiene senz’altro indicazioni preziose per il lavoro di inchiesta e per l’intervento politico: difficilmente, può condurre a quella “ri-traduzione” di Lenin e dell’altro bolscevismo di cui Quadrelli parla con una formula di cui credo vadano maggiormente sottolineate le difficoltà e perfino le aporie. Non può ad esempio sfuggire che nel 1902, quando Lenin scrisse il Che fare, il marxismo era in piena ascesa non solo in Russia, aveva conquistato larghi strati operai e una parte importante della gioventù era ben disposta a nutrire le schiere dei “rivoluzionari di professione”. Del tutto diversamente stanno le cose oggi, così come mi pare che Quadrelli sottovaluti, nella sua analisi della “fase imperialista globale”, la tensione tra scontro tra potenze e persistente integrazione del sistema capitalistico mondiale, che rende difficile pensare la rivoluzione attraverso la categoria e la prassi leniniana dell’insurrezione.

La nota di ironia con cui si conclude il libro – “al momento attuale possiamo domandarci solo, con Isaia, a che punto è la notte e augurarci, per avere risposta, di non dover aspettare quanto il popolo ebraico” – mostra che in fondo Quadrelli è ben consapevole della difficoltà di “ritradurre Lenin” nelle forme da lui prospettate. L’altro bolscevismo resta comunque un libro importante per la forza, la passione e l’originalità con cui riqualifica – attraverso la figura, o il paradigma di Kamo – il “problema Lenin”. Attraverso vie che mi sembrano forse più tortuose, sono convinto che sia ancora un nostro problema.

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