Di SANDRO MEZZADRA e BRETT NEILSON

Per Toni Negri (1933-2023)

Maestro, compagno, amico

1. La guerra, abbiamo scritto in un nostro precedente articolo, è oggi al centro dei processi che stanno determinando una complessiva riorganizzazione del capitalismo su scala mondiale.[1] L’indebolimento dell’egemonia globale statunitense apre scenari di tumultuosa e incerta transizione, che per molte ragioni appaiono diversi da quelli che hanno accompagnato nella storia moderna del capitalismo precedenti “transizioni egemoniche”. Non pare infatti profilarsi all’orizzonte una nuova potenza egemone, ed è ragionevole pensare che questo dipenda anche dalle caratteristiche assunte oggi dal capitalismo. Resta tuttavia il fatto che la crisi di un’egemonia globale si è sempre accompagnata a guerre di impatto devastante, quelle napoleoniche nel passaggio dall’egemonia olandese a quella britannica, le due guerre mondiali nel passaggio da quest’ultima a quella statunitense.[2] È bene tenere presenti questi precedenti storici, per comprendere la radicalità delle sfide di fronte a cui ci troviamo oggi. Del resto, quando scrivevamo l’articolo appena richiamato, assumevamo la portata globale della guerra in Ucraina come paradigmatica. Dopo il 7 ottobre, dopo l’operazione di Hamas la cui violenza non ci ha certo lasciato indifferenti, un’altra guerra si è sovrapposta alla prima. I bombardamenti di Gaza, le operazioni di terra dell’esercito israeliano, l’intollerabile macello di corpi e vite palestinesi, l’urbicidio di Gaza City, hanno certo riaperto conflitti relativamente antichi. Al tempo stesso, hanno rivelato inedite dimensioni della crisi della capacità di guida statunitense, l’emergere di nuovi attori regionali e più in generale profonde mutazioni del sistema internazionale.

Non è questa la sede per analizzare nel dettaglio l’insieme di processi e di trasformazioni che abbiamo appena menzionato. Piuttosto, occorre ribadire che la centralità della guerra richiede un ripensamento profondo dell’internazionalismo, l’unica condizione che può rendere efficace il rifiuto radicale della guerra stessa e contemporaneamente la lotta per la pace: per una pace caratterizzata da giustizia sociale, da libertà e uguaglianza in una prospettiva che attraversi i confini tra le nazioni e tra i continenti. L’opposizione alla guerra, del resto, è stata un carattere fondante dell’internazionalismo socialista e comunista, quantomeno a partire dalla Conferenza di Zimmerwald del 1915. In anni a noi più vicini, abbiamo vissuto l’esperienza della formidabile mobilitazione globale nel febbraio 2003 contro l’invasione dell’Iraq, che pur sconfitta dimostra la possibilità di un’azione politica su scala mondiale. Siamo tuttavia convinti che la guerra abbia oggi, per via del sistema internazionale in cui si colloca, caratteristiche molto diverse non solo da quella di inizio Novecento ma anche da quelle di un secolo successive. Per questa ragione, ci sembra necessario ripensare i fondamenti dell’internazionalismo, assumendo come punto di partenza la necessità di collocare il rifiuto della guerra, come si è detto, all’interno di un progetto più generale che punti a rimuovere le cause stesse della guerra. Anche questa affermazione non è certamente nuova; nuove sono le condizioni in cui si tratta di riqualificarla. Gli inediti significati globali di cui si è caricata nelle scorse settimane la solidarietà con la Palestina indicano al tempo stesso la necessità e la possibilità di questo difficile compito.[3]

Il rifiuto della guerra, nei termini in cui ne abbiamo fin qui parlato, può dunque essere il terreno comune di un nuovo internazionalismo soltanto se al tempo stesso si lavora teoricamente e praticamente al profondo rinnovamento della comprensione di quella lotta di classe che continua per noi a rappresentare il motore essenziale di ogni trasformazione sociale. In diversi interventi abbiamo insistito sulla necessità di sganciare la lotta di classe da ogni “economicismo”, da controversie quali quelle sulla distinzione tra lavoro “produttivo” e “improduttivo”, tra produzione e riproduzione.[4] Il punto non è proporre una concezione indeterminata della classe, ma piuttosto assumere radicalmente le trasformazioni della composizione del lavoro vivo nel capitalismo contemporaneo, che fanno della molteplicità un suo tratto distintivo e irriducibile. In questo senso, occorre riconoscere e valorizzare i processi di produzione di soggettività che attraversano quella composizione e che iscrivono al suo interno dimensioni diverse rispetto a quelle tradizionalmente definite come “economiche”. Un concetto allargato e rinnovato di sfruttamento costituisce lo strumento fondamentale per delimitare il campo della classe e per porre il problema del suo divenire soggetto attraverso l’istituzione di un antagonismo fondamentale.[5] Si tratta di questioni che qui possiamo soltanto richiamare stenograficamente, ma era importante farlo perché sono per noi parte integrante di ogni ragionamento su un nuovo internazionalismo.

2. È inutile ripetere che l’internazionalismo non è certo qualcosa di nuovo. Radicato in una lunga storia di solidarietà anarchica, socialista e comunista, le sue potenzialità e il suo lascito sono ad esempio ben evocati dal riferimento a luoghi come la Spagna e il Vietnam. Queste risonanze storiche sono per noi importanti. Tuttavia, non siamo certi del fatto che il termine internazionalismo mantenga oggi la sua validità. Ci sono almeno due ragioni per questa esitazione. In primo luogo, l’internazionalismo è stato troppo spesso usato come copertura per specifici interessi nazionali, in particolare quelli dell’Unione Sovietica, con conseguenze catastrofiche nell’età di Stalin (e il caso della guerra civile spagnola è di nuovo esemplare). In secondo luogo, nella storia dell’internazionalismo è stata in buona sostanza assunta come scontata l’idea che la nazione fosse l’unità di base per l’organizzazione politica.[6] Le cose non stavano necessariamente in questo modo nella formulazione originaria del concetto. Quando Marx cominciò a scrivere sul tema, negli anni Quaranta dell’Ottocento, il processo di nazionalizzazione dello Stato, dei mercati e della mappa politica dell’Europa era lungi dall’essere concluso nella stessa Europa. L’internazionalismo, in queste condizioni, ha rappresentato una straordinaria invenzione e anticipazione politica. È questa creatività che si tratta oggi di rilanciare per fare in modo che un nuovo internazionalismo, qualunque sia il suo nome, possa sostenere e rilanciare le lotte contro le forze imperialiste nel nostro presente.

Oggi ci troviamo di fronte a una disarticolazione del cosiddetto sistema internazionale basato sulle regole che mette in discussione le forme consolidate dell’internazionalismo e dello stesso cosmopolitismo liberale. È all’interno di questo contesto che il gesto marxiano va ripetuto, nella consapevolezza del fatto che ripetizione può qui soltanto significare radicale innovazione. Quel gesto, come ha sottolineato nel 1993 Jacques Derrida, ha prefigurato un movimento politico organizzato – l’internazionalismo operaio e proletario – che per la prima volta nella storia dell’umanità “si è presentato come geo-politico, inaugurando così lo spazio che ora è il nostro e che oggi tocca i suoi confini, confini della terra e confini del politico”.[7] Oggi siamo oltre quei confini, tra le altre ragioni per il fatto che nel tempo dell’antropocene e del capitalocene il pianeta si è imposto come concetto e come dimensione di esperienza distinti da quelli indicati dal globo e dal mondo.[8] Reinventare l’internazionalismo significa anche incorporare nei suoi stessi fondamenti epistemici la questione della vulnerabilità del pianeta, andando oltre l’alternativa tra “decrescita” ed “ecomodernismo” che caratterizza i dibattiti contemporanei, con le loro opposte posizioni a proposito dello sviluppo economico.[9] Molti movimenti al di fuori dell’Europa e dell’Occidente, compresi quelli femministi latinoamericani di cui parleremo più avanti, stanno costruendo forme di solidarietà internazionalista che riconoscono come rapporti di dipendenza devastino ecologie e concorrano allo sfruttamento di lavoratori e lavoratrici tanto nelle “periferie” quanto nei Paesi che continuano a pensarsi come “centrali”.

Porre l’accento sulla discontinuità e sull’esigenza di una radicale innovazione politica, del resto, non significa abbandonare le lezioni del passato. Sotto il profilo del metodo, al contrario, una delle nostre fonti essenziali di ispirazione è la vera e propria lotta condotta da Lenin negli anni della Grande Guerra per comprendere le caratteristiche essenziali dell’imperialismo, una lotta che lo condusse a ridefinire aspetti essenziali della politica comunista in Russia e su scala mondiale. Non pensiamo che la teoria dell’imperialismo di Lenin possa trovare una corrispondenza letterale nel mondo di oggi. Le trasformazioni del capitalismo (e in particolare del rapporto tra Stato e capitale) sono state troppo radicali nell’ultimo secolo, e uno degli insegnamenti fondamentali di Lenin consiste proprio nel collegare la teoria dell’imperialismo con i profondi cambiamenti che investono il capitalismo, nel suo caso con la fine del libera concorrenza e con la transizione che si era aperta alla fine dell’Ottocento. È un primo punto che continua a guidare la nostra analisi, così come l’attenzione alle lotte anticoloniali che portò Lenin a scoprire un nuovo mondo che stava emergendo dalle macerie della guerra e a prendere congedo dall’eurocentrismo. È in questo senso che la politica comunista diventa per lui una politica mondiale. Più in generale, la tensione a includere fattori “geopolitici” nella sua teoria della lotta di classe in una congiuntura di guerra, devastazione e massacri senza precedenti in Europa resta per noi esemplare (lo ripetiamo: dal punto di vista del metodo). È precisamente questa articolazione tra “geopolitica” e lotte sociali che torna a essere cruciale oggi in un mondo nuovamente ma diversamente segnato dalla guerra e dall’intensificarsi della concorrenza intercapitalistica.

3. Il riferimento alla “geopolitica” è del resto indicativo di una serie di processi e problemi aperti nell’organizzazione del sistema mondo, che si tratta per noi di analizzare in una prospettiva diversa da quella che solitamente viene intesa attraverso quel termine. La geopolitica ha precise origini storiche nel passaggio tra Otto e Novecento, in una congiuntura caratterizzata dalla crisi incipiente della egemonia britannica e dall’intensificazione della competizione inter-imperialistica.[10] Senza discuterne nel dettaglio l’evoluzione storica, è sufficiente sottolineare che nel modo in cui viene solitamente praticata e recepita nel dibattito pubblico (in Italia in modo particolare) la geopolitica tende ad ammantarsi di una “oggettività” che deriva da quello che si potrebbe definire un sostanziale determinismo geografico: in quella prospettiva, in altri termini, i soggetti fondamentali della politica mondiale sono non soltanto gli Stati e soprattutto le grandi potenze, come nel mainstream dello studio delle “relazioni internazionali”, ma anche masse terrestri e correnti oceaniche. Siamo ben lungi dal negare l’influenza dei fattori geografici sulla politica, tanto più nel tempo dell’antropocene e del capitalocene, e riconosciamo l’importanza di quell’insieme di correnti di studio che ha assunto la denominazione di “geopolitica critica”.[11] Nondimeno, siamo convinti della necessità di prendere seriamente i temi su cui lavora la geopolitica e di sviluppare un diverso paradigma teorico per affrontarli dal punto di vista di un nuovo internazionalismo. È quanto proviamo a fare proponendo come concetto per definire l’attuale stato della politica mondiale quello di multipolarismo centrifugo e conflittuale. Ciò che per noi è importante è mettere al centro dell’analisi il processo di formazione dei poli, che sarebbe sbagliato leggere come già costituiti e perimetrati da stabili confini. In questo processo giocano ruoli essenziali non solo gli Stati (quelli “imperiali”, in particolare), ma anche una pluralità di attori capitalistici nonché i movimenti e le lotte sociali.[12]

È all’interno di questo scenario, in cui Stati e nazioni continuano a giocare ruoli importanti ma sempre sovradeterminati da dinamiche che li eccedono, che si tratta di ripensare l’internazionalismo. Lungi dal celebrare il multipolarismo, quest’ultimo è per noi la forma, non sappiamo se transitoria, in cui si sta riorganizzando un capitalismo che continua a essere attraversato, caratterizzato e costituito da molteplici processi globali. Rimanendo consapevoli della complessità della formazione e della stessa costituzione dei poli, si tratta di focalizzare l’analisi sulle lotte e sulle dinamiche sociali in una prospettiva che consenta di evidenziare i molti modi in cui agevolano, alterano e contestano i processi di formazione dei poli. Per fare un primo esempio, le grandi lotte di Hong Kong del 2019/20 hanno dispiegato un antagonismo sociale contro le forme assunte dalla logica di formazione di un polo connesso all’ascesa della Cina, contestando in particolare la promulgazione di una legge per la sicurezza nazionale. Sappiamo qual è stato l’esito di quelle lotte. Ma sappiamo anche che questo esito poteva essere diverso, in particolare se fosse emersa in primo piano la componente di classe del movimento e se quest’ultimo avesse trovato echi nella Cina continentale, secondo la prospettiva della sinistra di Hong Kong.[13] Questo tema della componente di classe rinvia a quanto dicevamo in precedenza sulla necessità di assumere una concezione allargata e rinnovata della lotta di classe come criterio dirimente di un nuovo internazionalismo. È un punto importante, considerato che si diffondono oggi posizioni che individuano invece nel semplice carattere antioccidentale di presunti blocchi in formazione l’elemento fondamentale di una politica antimperialista. Ci sembra una tendenza da contrastare con forza. Si prenda ad esempio il caso dell’Iran: non rinunceremmo mai al nostro appassionato sostegno al movimento che nel 2022 ha assunto come slogan “donna, vita e libertà”, mutuandolo per altro dalle donne curde di Rojava, per celebrare il ruolo del Paese in un supposto polo antimperialista. E questo vale per ogni lotta che abbia un simile posizionamento, indipendentemente dal processo di formazione di un polo in cui è inserita.

Siamo comunque convinti che i processi in atto di formazione di poli indichino gli spazi, mobili e aperti a molteplici incroci con altri spazi, al cui interno si tratta in primo luogo di istituire canali di comunicazione e organizzazione tra le lotte. Le coordinate di azione politica che ne risultano possono d’altro canto, insistendo sulle tensioni e sui conflitti che caratterizzano i processi di formazione dei poli, essere facilmente moltiplicate e articolate con altre esperienze di comunicazione e organizzazione delle lotte, in una prospettiva globale che non perde tuttavia la concretezza del radicamento in specifici contesti. Le lotte stesse, del resto, hanno la capacità di intervenire nella produzione di nuovi spazi. È quel che è accaduto negli ultimi venticinque anni in America Latina, dove un concatenamento di rivolte e movimenti ha investito la regione dalla fine del secolo scorso, aprendo appunto lo spazio in cui si sono collocati negli anni successivi i nuovi governi “progressisti”. Nonostante i molti rovesci e i limiti di questi governi, in qualche modo esemplificati dalla recente vittoria di Javier Milei alle elezioni presidenziali argentine, questo processo è proseguito fino a oggi, per quel che riguarda sia la continuità nell’azione dei movimenti sia il succedersi di governi che hanno assunto lo spazio regionale come scala essenziale per la lotta contro la povertà e per la gestione dell’interdipendenza a livello globale. Non è qui in questione, naturalmente, un bilancio dell’esperienza di questi governi. Quel che conta è che, per l’azione persistente (e non di rado conflittuale) di movimenti radicali e di governi “progressisti”, l’America Latina continua a essere uno straordinario laboratorio politico, in cui tra l’altro ipotesi “riformiste” e “rivoluzionarie” si confrontano su basi nuove. E dimostra per noi quantomeno la potenzialità di una articolazione delle lotte su un piano regionale, che rappresenta una condizione fondamentale per un nuovo internazionalismo.

4. Ci sarebbe molto da aggiungere sull’America Latina, sulla geografia multilivello di un embrionale processo di formazione di un polo caratterizzato dall’esistenza di diverse organizzazioni regionali, dalla proliferazione di spazi operativi e infrastrutturali del capitale, tra l’altro legati all’intensificazione delle attività estrattive, e – cosa particolarmente rilevante – dalla contemporanea presenza degli Stati Uniti e della Cina. Qui, ci interessa tuttavia richiamare l’attenzione su uno specifico movimento sociale, di grande forza e originalità. Le grandi mobilitazioni femministe cominciate nel 2015 in Argentina con lo slogan Ni Una Menos sono state in effetti caratterizzate da un ritmo accelerato e da una potenza di trasformazione che ha investito e innovato lo stesso significato del femminismo. La rapida circolazione di questo movimento, delle sue parole d’ordine e delle sue pratiche su scala regionale ha determinato la formazione di una dimensione latino-americana di lotta femminista attraverso un lavoro di traduzione di strumenti organizzativi e di discorsi politici in contesti materiali spesso anche significativamente eterogenei. Al tempo stesso, il nuovo femminismo latino-americano ha generato potenti risonanze tanto negli Stati Uniti quanto in Paesi dell’Europa meridionale come l’Italia e la Spagna, ponendo le basi per molteplici incontri e per nuove forme di comunicazione transnazionale e transcontinentale. Quella che Verónica Gago chiama l’“internazionale femminista” poggia su una densa rete di corpi in lotta, specificità territoriali e soggettive e pratiche situate di una politica anticoloniale e antirazzista che sfida i limiti della geometria fondata sullo Stato nazione senza mai divenire astratta.[14]

Non presentiamo certo Ni Una Menos come un modello. Piuttosto, ci pare possa essere un esempio (uno specifico caso esemplare) da cui trarre ispirazione per definire alcuni tratti di fondo del nuovo internazionalismo. Tra le altre cose, troviamo importante andare oltre l’impressione diffusa che l’internazionalismo sia oggi astratto, che manchi di quella concretezza che caratterizza la lotta in uno specifico luogo di lavoro, in una città, in una nazione. Al contrario, l’internazionalismo deve oggi non solo essere fondato sulla concretezza di queste lotte ma deve anche essere capace di intensificarla attraverso pratiche che puntino ad affrontare i processi globali su cui si basa oggi il capitalismo – processi che operano in uno spazio e in un tempo diversi da quelli delle scale che abbiamo appena richiamato. La sfida è quella di pensare diversamente lo spazio “globale”, di cogliere potenzialità “translocali” anche nelle lotte più localizzate, di combinare il radicamento dell’azione politica con l’attenzione costante alla circolazione e alle risonanze delle lotte attraverso i confini. Allestire i progetti di comunicazione e le piattaforme necessari per potenziare quella circolazione e quelle risonanze all’interno di geometrie variabili di relazioni regionali, per facilitare il passaggio di donne e uomini costretti all’illegalità dal governo delle migrazioni, per porre in relazione lotte femministe, antirazziste, per la giustizia climatica e sul lavoro costituisce oggi un compito essenziale, nella prospettiva di costruire lo scheletro infrastrutturale di un nuovo internazionalismo.

Ripetiamo che non sappiamo se quello di internazionalismo sarà di per sé un nome valido per affrontare le sfide che ci attendono. Lo usiamo provvisoriamente, consapevoli del fatto che indipendentemente dai nomi la problematica dell’internazionalismo continua a essere oggi fondamentale. Quel che è necessario è forgiare un linguaggio politico capace di riferirsi con efficacia alle condizioni profondamente eterogenee del dominio e dello sfruttamento in diverse parti del mondo articolando al tempo stesso un comune desiderio di liberazione. È una formulazione che può apparire semplice, ma siamo consapevoli del fatto che pone grandi problemi tanto teorici quanto politici, a partire dalla possibilità stessa di postulare un “comune desiderio di liberazione”. Può essere un tale desiderio formulato in termini universali, tenendo presente l’intensità dei dibattiti critici degli ultimi anni sull’universalismo?[15] Domande come questa si potrebbero moltiplicare. Qui, per concludere, basti dire che costruire un nuovo linguaggio internazionalista è la condizione per immaginare una vita oltre il dominio del capitale – e viceversa. Non è certo un compito che possa essere svolto da singoli intellettuali o attivisti politici, richiede piuttosto un lavoro collettivo nutrito da esperienze eterogenee, con l’obiettivo di definire un insieme di principi e concetti da tradurre in contesti materiali e geografici diversi. Possiamo in questo senso riferirci a Gramsci, alle sue intense riflessioni sulla “traducibilità” dei linguaggi filosofici e scientifici, per indicare la possibilità di una politica internazionalista della traduzione che assuma la portata universale di ogni concetto politico non come qualcosa di dato, ma come una posta in palio – come qualcosa che deve essere continuamente verificato a fronte di molteplici e specifiche situazioni concrete.[16] Solo in questo modo il mondo in cui viviamo, un mondo piagato dalla guerra, dalla povertà e da molteplici crisi, può tornare a essere “un mondo da guadagnare”.


[1] Si veda S. Mezzadra e B. Neilson, Mutazioni del capitalismo globale: un’analisi congiunturale, in “Alternative per il socialismo”, 69 (2023), pp. 35-43.

[2] Si veda in questo senso G. Arrighi e B. Silver, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari (1999), prefazione di S. Mezzadra, Milano, Mimesis, 2024.

[3] Si veda R. Salih, Palestina, nuove sensibilità e intersezionalità delle lotte, in “il Manifesto”, 2 dicembre 2023.

[4] Si vedano ad esempio S. Mezzadra e B. Neilson, The Rest and the West. Capital and Power in a Multipolar World, London – New York, Verso, 2024, cap. 5 e S. Mezzadra, Politica di classe. Un problema marxiano e le sue metamorfosi, in corso di pubblicazione in “Parolechiave”.

[5] Si vedano in questo senso i recenti lavori di E. Rigo, La straniera. Migrazioni, asilo, sfruttamento in una prospettiva di genere, Carocci, Roma 2022 e E. Renault, Abolir l’exploitation. Expériences, théories, stratégies, La Découverte, Paris 2023.

[6] Naturalmente ci riferiamo alle linee dominanti di sviluppo della storia dell’internazionalismo, che presenta per il resto esperienze di diverso segno, in particolare nel contesto delle lotte anticoloniali. Si veda ad esempio, in questo senso, il recente volume curato da P. Capuzzo e A.G. Mahler, The Comintern and the Global South. Global Designs/Local Encounters, London – New York, Routledge, 2023.

[7] J. Derrida, Spettri di Marx (1993), Milano, Cortina, 1994, p. 52.

[8] Cfr. D. Chakrabarty, The Climate of History in a Planetary Age, Chicago – London, Chicago University Press, 2021. Per il concetto di “capitalocene”, si veda J.W. Moore, Antropocene o capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, Verona, ombre corte, 2017.

[9] Si veda Kai Heron The Great Unfettering, in “Sidecar”, 7/9/2022,https://newleftreview.org/sidecar/posts/the-great-unfettering

[10] Si vedano ad esempio i saggi raccolti nella sezione monografica di “Filosofia politica”, 25 (2011), 1.

[11] Si veda, per una presentazione di temi e autori, Klaus Dodds et al. (a cura di), The Ashgate Companion to Critical Geopolitics, London – New York, Routledge, 2013. Un testo storico su questi temi, che mantiene una sua attualità, è quello di K.A. Wittfogel, Geopolitics, Geographical Materialism, and Marxism (1929), in “Antipode. A Radical Journal of Geography”, 17 (1985), 1, pp. 21-72.

[12] Rimandiamo ancora a S. Mezzadra e B. Neilson, Mutazioni del capitalismo globale: un’analisi congiunturale, cit.

[13] Si veda ad esempio Pun Ngai, Reflecting on Hong Kong Protests in 2019-20, in “HAU: Journal of Ethnographic Theory”, 10 (2020), 2, pp. 333-338.

[14] Si veda V. Gago, La potenza femminista. O il desiderio di cambiare tutto (2019), Alessandria, Capovolte, 2022, cap. 6.

[15] Si veda É. Balibar, Gli universali (2016), Torino, Bollati Boringhieri, 2018.

[16] Il riferimento è in particolare all’undicesimo quaderno del carcere di Gramsci. Abbiamo affrontato l’insieme dei problemi qui menzionati in S. Mezzadra e B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale (2013), Bologna, il Mulino, 2014, cap. 8.

Questo articolo è stato pubblicato in Alternative per il socialismo: Sandro Mezzadra – Brett Neilson, Per un nuovo internazionalismo, in «Alternative per il socialismo», n. 71, “Cessate il fuoco!” (2024).

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